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giovedì 16 luglio 2020

Indice di Qualità Napvalica

Sono lontani i tempi in cui riuscivo a godermi prima e seconda serata davanti alla Tv. 

Già da alcuni anni mi capita di addormentarmi sul divano e di perdermi buona parte della visione di film, serie e spettacoli vari. Spesso poi mi sveglio nel mezzo della visione e, se posso, cerco di tornare indietro fino all'ultimo punto che mi ricordo di aver visto; quasi sempre mi riaddormento. 

Alla fine, quando vado a letto, mi chiedo: era un bel film ?

Volendo quindi fare di vizio virtù, ho messo a punto un sistema di valutazione della qualità di film, serie o spettacoli vari, che si basa sia sul tempo di visione e sia sul numero di interruzioni. 

L'ho chiamato Indice di Qualità Napvalica o abbreviato IQN. 

L'assunto è che la qualità del film (serie o spettacolo...) è direttamente proporzionale al tempo di visione e inversamente proporzionale al numero di interruzioni. 

Qui sotto la spiegazione per chi vuole, per gli altri buona notte. 
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COME SI CALCOLA:

IQN = t1 - t0 / 1+ k 

Dove: 
IQN = indice di qualità napvalica (dovreste saperlo già, se siete stati molto attenti finora); 

t1= tempo in cui avviene l'interruzione o tempo effettivo di visione calcolato in minuti 

(ad esempio: se mi addormento dopo 30 minuti dall'inizio, sarà: t1= 30);

t0= tempo zero o di inizio del film/spettacolo 

(è sempre uguale a zero perché è il momento di inizio della visione; è ovviamente inutile perché è sempre uguale a zero, ma mi piaceva metterlo: che cavolo mica è matematica, è Napval!);

k = numero di interruzioni, cioè il numero di volte che mi addormento durante la visione 

(al denominatore ho messo "1+k" per evitare i casi in cui non essendoci interruzioni si abbia il denominatore uguale a zero. Visto che precisione? Non ho fatto lo scientifico mica per niente, nèh!); 
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E' ovvio che non pretendo che questo indicatore sia esaustivo di tutta la valutazione qualitativa di film o simili, né che sia affidabile, in quanto fortemente influenzato dalle mie condizioni fisiche al momento della rilevazione. Per questo, a volere essere onesti bisogna concedere almeno due possibilità ai film, se è possibile cioè se sono registrati, in modo da evitare quelle valutazioni in cui si è troppo stanchi e ci si addormenterebbe comunque.

Ecco, magari non sarà apprezzato da tutti, ma volevo comunque dare questo contributo all'umanità.

Confido che l'umanità accolga questa iniziativa come tutte le altre mie precedenti: con adorante devozione.

Adieu!



lunedì 13 luglio 2020

Non scrivete così!

Dopo aver letto la biografia di Labranca ho acquistato il libro di C. Giunta "Come non scrivere"(Utet, 2018). 

E per inaugurare il nuovo lettore che MCA mi ha regalato per celebrare il mio 42° genetliaco ho scelto la versione digitale ("E 'sti cazzi", mi si dirà giustamente).

Cercavo un manuale che mi aiutasse a scrivere meglio, che mi aiutasse ad avere uno stile più curato, meno piatto e possibilmente ad evitare strafalcioni.

Ho trovato molto di più. 

Quello di Giunta non è solo un testo molto chiaro sullo scrivere correttamente ma è anche un'analisi di come noi italiani scriviamo e purtroppo pensiamo. 

La lezione che si impara da questo libro è che scrivere male porta a pensare male; dove per male intendo in modo oscuro, artefatto e volutamente ricercato, o come direbbe Labranca (che qui viene pi
 volte citato): da cialtroni. 

Perché purtroppo e questo un difetto della nostra nazione: l'essere dei cialtroni, che quando scrivono, parlano e ahimè pensano, lo fanno come dei contadini che si vestono con l'abito della festa (per usare una metafora presente nel libro), ma che nel profondo restano dei villici (questo lo dico io).

Mi viene in mente Moretti quando in Palombella Rossa urla: "Chi parla male, pensa male e vive male!". Ecco appunto. 

La metafora del contadino vestito a festa può pure essere offensiva, ma è molto chiara. Non è certo Giunta a dirlo per primo. Lui stesso cita altri predecessori quale ad esempio Calvino, che parlava di "antilingua". 

Che cos'è l'antilingua? E' un modo di usare la lingua italiana che si rifiuta di chiamare le cose per quello che sono. Insomma un uso che rifugge sdegnosamente da qualsiasi riferimento a connotati reali o materiali. Una filosofia perversa che fa della ricercatezza, dell'arzigogolo, della perifrasi artificialmente dotta, un punto d'onore. E' un'idea di eleganza a discapito della comprensibilità; ma appunto è solo un'idea cioè un supporre che chiamare le cose, e sopratutto gli oggetti materiali, con il loro nome, sia uno svilirne lo status. 

Pura stupidità. 

Il dramma di noi italiani è che noi scriviamo così perché pensiamo così. La causa e l'effetto si rincorrono a vicenda. Noi crediamo, da buoni villici, di essere in difetto se non ci ammantiamo di un artificio linguistico che ci fa sembrare falsamente nobili. Pensiamo che per dire una cosa la si debba dire con ricercatezza a cui contrapporre la presunta bassezza della lingua comune. E poiché tutto questo lo si insegna già dai primi anni di scuola risulta evidente che più in là si va con gli anni e più le cose peggiorino. 

Mi viene in mente questo esempio tratto dall'esperienza personale ma che credo sia comune a molti: se dobbiamo prendere il treno, dobbiamo prima comprare il biglietto. Si badi bene, il biglietto! Se andiamo in stazione troveremo un ufficio con una grande insegna in cui c'è scritto: biglietteria. Oppure delle macchinette automatiche in cui si possono acquistare i biglietti. Oramai da tanto tempo, poi, se vogliamo farlo da casa, possiamo comprare il biglietto sul sito internet. Cosa compreremo? Ma il biglietto, è ovvio! Detto questo, perché quando andiamo in stazione troviamo scritti dei cartelli in cui si avvisano i viaggiatori che prima di salire in carrozza bisogna "munirsi del titolo di viaggio"? Perché non si può semplicemente chiamarlo "biglietto", come Dio comanda? 
Il motivo è semplice. Perché biglietto è un termine troppo materiale e quindi senza dignità. E forse anche perché stiamo parlando di una norma e le norme devono avere un tono imperativo ma soprattutto, per la perversione di cui sopra, non possono essere scritte nell'italiano comune, troppo basso, troppo popolare. Le norme sono superiori all'uomo pertanto vanno scritte in una lingua superiore. Ed è assurdo perché invece le norme devono essere chiare, inequivocabili e soprattutto comprensibili, se no non servono a niente. 

Ma quello della scrittura delle norme è solo un esempio. Giunta ne riporta altri, e sono particolarmente gustosi quelli che esamina in appendice.

In conclusione, penso che sia un'ottima lettura, un po' per tutti. Il tono è molto diretto e il messaggio è molto chiaro. 
Ma al di là del contenuto esplicito, tra le righe vi è l'invito a fare una sana autocritica; un invito a chiedersi se il proprio modo di comunicare sia comprensibile o no. 

E questo certamente non fa mai male. 


FINE

martedì 23 giugno 2020

Le alternative non esistono: Labranca è vivo.

E' più di un giorno che mi frulla in testa l'idea di questo post. Penso all'incipit, a come proseguire, a come argomentare. Troppi pensieri, troppo caos. E' anche un post disonesto perché tratta di un libro che non ho ancora finito di leggere ma non riesco a resistere: l'impulso è troppo forte.

Così lo metto giù e basta, così come viene. 

Come quando qualche giorno fa ho letto su un quotidiano la recensione del libro di C. Giunta "Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca" (Il Mulino, 2020). Appena terminata la lettura dell'articolo ho sentito la necessità di acquistarne una copia e mi sono recato appena ho potuto presso una delle principali librerie della mia città incredulo sulla possibilità di trovarne una. Sono stato fortunato e una copia c'era (l'unica?) e mi sono anche chiesto che tiratura e quali acquirenti potrà mai avere un testo del genere. 

Di Claudio Giunta, professore universitario di letteratura e collaboratore di quotidiani e riviste non avevo letto nulla se non due pregevoli articoli su Internazionale in cui aveva coraggiosamente definito Lo Sgargabonzi (alias A. Gori) "il migliore scrittore comico italiano". Quando ho realizzato che si trattava di quel Giunta che scriveva di quel Labranca non c'è stato nulla da fare, l'impulso all'acquisto si è tramutato in brama. 

Ma due sono i motivi originari che mi hanno fatalmente indotto alla frenesia dell'acquisto. 

Il primo è che quando circa quattro anni fa lessi la notizia della sua morte (quasi fortuitamente, dato che non gli vennero dedicate molte righe sui giornali), ci rimasi male. Ci rimasi male come può rimanerci male un fan, o un sostenitore, insomma uno che alla fine si prenderebbe la libertà di dare del tu ad un idolo incontrato per la strada, basandosi sulla falsa presunzione di aver instaurato con lui una qualsivoglia relazione solo per il fatto di averne letto con avidità le opere. 
Eppure se ci penso, e più procedo nella lettura del libro di Giunta me ne convinco, se avessi incrociato Labranca dal vivo, se avessi avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere con lui, non ne sarei uscito bene e molto probabilmente lo avrei schifato, e per ignoranza (la mia) e per incapacità dialettica (sempre la mia, ovviamente). Il fatto è che Labranca era per me una di quelle voci remote che Giunta definisce ottimamente come "un gruzzolo di esseri umani lontani, nel tempo o nello spazio, con cui conversare". Sicuramente, nel mio piccolo, condivido con Giunta questo patrimonio. 

Il secondo motivo è un po' intimo, se mi si concede il termine. E' il fatto che le letture di "Andy Warhol era un coatto" (1994), "Estasi del pecoreccio" (1995) e "Chaltron Hescon" (1998), mi rimandano con la memoria ai tempi del Liceo, negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, quando una mattina di un mese imprecisato, il professore di Filosofia si presentò in classe brandendo il primo volume di cui profferì un'entusiastica recensione che mi indusse di lì a breve ad acquistarlo e a leggerlo avidamente. Iniziai da allora a sospettare della Cultura con la C maiuscola e sopratutto dei suoi più fervidi sostenitori. Gli sarò sempre grato per questo. 

Il libro di Giunta è un tentativo romantico di sottrarre all'oblio le idee e la storia di un intellettuale scomparso prematuramente. Per quello che possa valere (molto poco, lo so) sono grato a Giunta per quest'opera. Era un'opera necessaria per non disperdere nel mare magnum il pensiero di Labranca. 

Mi piacerebbe consigliare il libro a tutti. Ma sono anche sicuro che pochi lo apprezzerebbero perché pochi purtroppo hanno letto gli scritti di Labranca e temo che a parte gli addetti ai lavori pochi si ricordino di lui (se non quelli che ne hanno un vago ricordo per le apparizioni televisive, come nel programma di successo Anima mia, che per inciso non ho mai guardato). 

Se ripenso a Labranca mi chiedo: ma questo blog è trash? Ma certo che lo è. Non perché sia "spazzatura", cioè una paccottiglia di scarso valore scritta alla bene e meglio (o bene e peggio). Ma perché è trash proprio per la definizione che ne dà Labranca. Il trash è il risultato di una fallita emulazione di un modello alto il cui esito è involontariamente comico. L'autore di trash non è consapevole dell'esito della sua operazione perché ingenuamente e sinceramente crede che quello che fa sia di valore. Anche io nel mio piccolo faccio trash. Se rileggo i vecchi post, ma ahimè anche i più recenti, mi rendo conto di aver cercato di emulare chissà quale critico letterario o cinematografico ideale senza possederne i mezzi. Siamo onesti non sono un letterato e nemmeno un esperto cinefilo. Scrivo male e le mie analisi non aggiungono nulla a ciò che già è stato scritto e detto. In più il tono è spesso impostato ma l'esito, la scrittura scialba e a volte sgrammaticata, l'errore di battitura e la chiusura del post malriuscita suscitano ad un occhio esperto tenerezza quando non ilarità. 

Cos'altro dire? Nulla. Lo faccio così. Scrivo tanto per farlo, perché mi diverte. Ma riconosco la scarsa qualità del tutto. Sono un "blogghista" della domenica.

Almeno lo riconosco e forse in per questo con me Labranca sarebbe stato pure indulgente.