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lunedì 28 gennaio 2013

Jarhead: libro e film

Sono sempre un po' restio a leggere un libro da cui è stato tratto un film dopo aver visto il film stesso.
Può darsi che sia l'eterna e irrisolta diatriba tra "è meglio vedere il film no è meglio leggere il libro", ma sicuramente preferisco leggere prima una storia e dopo eventualmente vederla al cinema.

Il perchè è facile spiegarlo: quando leggo una storia inevitabilmente immagino le situazioni descritte, i personaggi, le loro espressioni i colori dell'ambiente e mi creo un mondo mio in cui una vicenda creata da qualcun'altro prende vita. 

Un romanzo deve forzatamente coinvolgere il lettore, renderlo partecipe dell'atto creativo; un lettore collabora alla creazione dell'opera immaginando dentro di sè i particolari dei luoghi, delle persone e delle situazioni che per quanto bravo e preciso uno scrittore possa essere, non riuscirà mai a definire compiutamente. Si può spiegare tutto con la metafora di un pittore che compone un quadro. Egli dipinge i tratti essenziali, il soggetto e lo sfondo, nè definisce alcune caratteristiche in modo che il dipinto sia comprensibile. Ma ad un certo punto deve fermarsi; deve essere qualcun'altro nella propria intimità a completare il quadro. 

Un film riassume e descrive una narrazione complessa in modo inequivocabile. A meno che non si sia daltonici, tutti percepiamo la stessa sfumatura di cpolore dei capelli del protagonista, quella particolare sfumatura che il romanziere può solo descriverci ma che non siamo sicuri che titti vedremo allo stesso modo nella nostra mente. 

Così mi sono avvicinato a Jarhead di Anthony Swofford (ed. Rizzoli, traduzione dello Studio Editoriale Literia) con lo stesso sospetto che di sempre. 



Ho visto il film più di una volta. E non ho potuto non sovrapporre alle fattezze di Swofford l'immagine di Jake Gyllenhall ma per il resto ho dovuto ricredermi. 
A voltre succede: anche se letto dopo il film, il libro "funziona" e a volte pure meglio. 

 

Il film è piacevole, ben diretto, ben recitato; scorre via tranquillamente, ma forse proprio questro è il suo difetto. Di che parla? Non è un resoconto della prima Guerra nel Golfo, perchè è evidente che quella è solo la cornice della narrazione. Il focus è sui personaggi e il corpo dei Marine, ma non è certamente una descrizione del funzionamento del corpo dei Marine nè una storia sulle vite dei personaggi.
E' sicuramente un tentativo di psicologicizzare l'esperienza del protagonista. Come è infatti il libro, che riesce infatti appieno in questo intento. Il tentativo del film di tradurre il libro in pellicola si infrange contro il prevalere delle sequenze divertenti che colpiscono e rimangono in mente: Swofford costretto a suonare la tromba con la bocca, sempre Swofford che deve ripulire i bagni o che deve ingurgitare acqua seduto su un banchetto sotto il sole cocente del deserto a torso nudo e con il cappello da babbo natale e così via. 

Il film non è nemmeno il nuovo "Full Metal Jacket" come è stato pomposamente pubblicizzato. Non è nemmeno "Platoon" se è per questo. Il primo di Kubrick è autenticamente un film sulla guerra e sull'addestramento disumanizzante dei Marines; il secondo di Oliver Stone (nessuno me lo toglie dalla testa) non è nemmeno un film sulla guerra ma sul rapporto ambivalente tra il protagonista e due figure paterne antitetiche, quella buona e quella cattiva (e Wall Street è una variante sul medesinmo tema).

Il libro è la storia di un Marine americano ma prima di tutto di un uomo che indossa una divisa in attesa di un qualcosa che non succederà mai. E' la descrizione del modo in cui il protagonista affronta le aspettative deluse, la preparazione, l'ansia per l'attesa insopportabile e l'anelito a ricoprire un posto nella storia del suo paese (e dell'Umanità), quando altrimenti non sarebbe e non avrebbe niente. Certo è stato plasmato da una formazione militare che gli ha insegnato a caricare e scaricare il fucile e a sparare, ma anche da qualcosa di più pervasivo e forse più subdolo: una generale cultura della guerra, un'educazione che fa di lui un soldato.

Quindi è un libro sulla psicologia del narratore che ha firmato un contratto con l'esercito e deve partire e non si pente per quello che vede, per gli orrori della guerra, la violenza, il sangue e le atrocità, perchè buon per lui ne vede poche. Ma si pente perchè non le ha viste e si sente un fallito. Perchè ci si aspetta da lui che spari, che uccida e che le sue mani siano insanguinate e che al ritorno magari abbia gli incubi con cadaveri e città distrutte. Ma tutto questo non c'è. E' entrato nell'esercito per avere uno scopo perchè pensava di trovarne uno ed invece è stato forgiato come un guerriero ma non gli è stata data la possibilità di combattere. 

Tornerà a casa sano e salvo certo, ma con lo stesso vuoto da cui ha cercato di fuggire. 

The end

domenica 13 gennaio 2013

Buon 2013!

E' questo il primo post del 2013? Sì? siamo in ritardo di 13 giorni, ma nello spirito napvalico: chissenefrega!

Dunque un po' di aggiornamenti sono comunque necessari:

1. il mondo doveva finire il 21 dicembre ma non è successo niente. A meno che i Maya non abbiano sbagliato di qualche giorno e la fine può capitare da un momento all'altro. Okkio gente! Bisogna stare sul chi vive!

2. Ho finalmente visto il terzo film del Batman di Nolan. Il mio responso è che il secondo è meglio del terzo. Stop.

3. Ho letto un libro interessantissimo: "La Repubblica delle stragi impunite" di Ferdinando Imposimato. E' doveroso leggerlo per chi è interessato alla storia nazionale recente. O meglio alla triste storia nazionale. Imposimato infatti ricostruisce con accuratezza gli eventi anche grazie ai riferimenti alle perizie e ai documenti inediti delle sentenze e delle inchieste svolte. Ma individua anche con precisione i possibili mandanti delle stragi compiute e di cui mai si è riusciti a comprenderne fino in fondo l'origine.

4. Su un altro versante ho iniziato la visione (completa) della Serie tv Battlestar Galactica: sono alla seconda stagione. E' un altro must per gli appassionati di fantascienza. Prende prende, è vivamente consigliata.

5. Ho visto di recente un filmetto davvero carino: "Castaway on the moon" del regista coreano Lee-Hey jun. E' un'assurda storia di comunicazione, scoperta e forse amore tra un quasi suicida che si ritrova su un'isoletta della baia di Seoul e una ragazza hikikomori (fenomeno praticamente sconosciuto in Italia, per fortuna) che dalla sua stanza - rifugio intrattiene con lui una relazione a distanza. Notevole davvero. E' un film comico, ma commovente allo stesso tempo. E' stato presentato da noi nel 2010 al Far East Film Festival di Udine dove ha vinto il premio principale (almeno così c'è scritto qui).
Da vedere.

Au revoir