Visualizzazioni totali

venerdì 30 dicembre 2011

Mancano 2 giorni al 2012...e 'sti cazzi!

Solitamente sul finire di un anno si fanno un po' di bilanci di come è andata e sopratutto ci si lancia nei terribili propositi per l'anno nuovo.
 Dico terribili perchè, essendone anch'io spesso tentato, li formulo con la consueta e ingenua speranza che sarò in grado di realizzarli: puntualmente non succede mai.
Pertanto quest'anno non mi appunterò nessun impegno per l'anno nuovo e consiglio a tutti di farlo. L'unica cosa utile è farsi comunque un esame dei coscienza e capire se si è soddisfatti o meno di una situazione e se possibile impegnarsi a cambiarla.

A tal proposito consiglio la lettura di un libro di G. C. Giacobbe: "La paura è una sega mentale. Come liberarsene per sempre". A dispetto del titolo infatti è un bel manuale di auto aiuto (o di sopravvivenza mentale se mi si passa il termine) dal quale credo che si possano trarre utili insegnamenti per migliorare un po' la propria esistenza.
Aggiornamento napvalico:
Ebbene sì, ho finito Madame Bovary. Quindi sono uno dei pochi uomini al mondo vivente nel 2011/2012 ad averlo letto dall'inizio alla fine. Andiamo, ammetiamo pure che al giorno d'oggi non lo si legge più! E così tanti altri classici. E io mi stupisco sempre di quegli scrittori giovani, di diciotto ventanni, che scrinono, pubblicano e hanno successo, ma che secondo me hanno sorvolato in pieno i classici della letteratura e non li conoscono se non grazie ai riassunti delle antologie scolastiche.
Adesso, dopo onesto saccheggio della biblioteca della nonna, vorrei intraprendere la lettura de "Il segno dei quattro" di A. C. Doyle, la seconda avventura di Sherlock Holmes.
Intanto mi diletto con l'ultimo Nathan Never la cui saga sulla guerra dei mondi devo ammettere che mi sta appassionando.
ok, è tutto anche per oggi.

lunedì 26 dicembre 2011

post di santo stefano...

Dopo diverso tempo passato a "dormire" (lavoro, preoccupazioni personali e varie ed eventuali) ritorno a postare.

Aggionamento:

- sto ancora leggendo (adagio) Madame Bovary, ieri ho iniziato la terza parte e arriverò fino in fondo sicuramente. Le feste da qeusato punto di vista sono una manna dal cielo: niente o quasi niente tv, tempo libero a gogò, rinvigorimento del piacere della lettura.

- nel frattempo ho letto "Papalagi" un libello di poche pagine dell'editrice Stampa Alternativa (da tenere d'occhio questa casa editrice perchè pubblica cose davvero interessanti), in pratica sono i discorsi di Tuiaivii di Tiavea capo di una tribù samoana che agli inizi del '900 compì un viaggio in occidente e al ritorno compose questi discorsi diretti a mettere in guardia i propri compatrioti dalla cultura e dal modus vivendi dell'uomo occidentale il "papalagi" appunto. é un testo simpatico ma sopratutto illuminante che fa capire da un altro punto di vista le assurdità del nostro modo di vivere;

- è finito Don Matteo, e non seguirò la serie che viene dopo;

- al cinema non ci sono andato e semplicemente ho una serie di dvd in arretrato che devo smaltire. In compenso ho rivisto con piacere Sherlock Holmes di Guy Ritchie. Aspetto con trepidazione di vedere l'ultimo Harry Potter...

Basta. Al momento non mi vengono in mente altre cose.
Alla prossima. Speriamo presto.

domenica 20 novembre 2011

week end

"E sta per finire un altro weekend/ se ne va coi gol in tele il weekend/ e poi aspetteremo un altro weekend/ convinti che sarà il migliore: dei weekend"

Sono profondamente convinto che Max Pezzali sia uno dei migliori cantautori italiani in circolazione. E sono altrettanto d'accordo con Tommaso Labranca quando in "Estasi del Pecoreccio" ( o era "andy Warhol era un coatto", non ricordo, ma tanto non importa perchè le due opere sono un unicum imprescindibile a cui forse si può aggiungere "Chaltron Hescon") spiega in soldoni che la letteratura italiana non racconta oramai più nulla superata dalla musica popolare, che più fresca e sopratutto più viva, è capace di raccontare le emozioni reali delle persone e delle giovani generazioni. Pertanto è più facile "ritrovarsi" in una canzone di Baglioni che in un romanzo pubblicato dagli anni '50 in poi.

Ecco Pezzali è un chiaro esempio di questo sorpasso. Lasciamo perdere il primo disco degli 883, che pure trasudava di esperienze vissute in prima persona e comunque trasferibili a qualsiasi membro medio della sua generazione e proviamo a prendere quello che è venuto dopo. Di tutta la sua produzione, quella che preferisco è proprio Weekend. Perchè è la canzone che esprime al meglio il senso di inutilità, noia, sbattimento avvilente del fine settimana di un giovane qualunque di una provincia italiana qualunque. Ma tra le righe si legge qualcos'altro. Il giovane in questione è costretto ad attendere il weekend come unico momento di affermazione della propria libertà. Durante la settimana il lavoro (forse lo studio, ma dal testo non sembra) costringe il giovane ad un'esistenzia fittizia tutta incentrata sull'attesa di un qualcosa che non arriva mai o che quando arriva delude le aspettative. 

Credo che molte persone detestino la domenica sera. Già la domenica pomeriggio è avvilente ma la sera è peggio. In tv non fanno quasi niente e non si ha voglia di uscire (non si può domani ci sia alza presto) e sopratutto si pensa all'indomani e alle incombenze della settimana. Diciamocelo: è tempo perso; non ha alcun significato l'attesa noiosa per il domani. 
A questo punto intravedo due soluzioni allo spleen della domenica sera: 

1. Vivere il presente e basta: cioè non pensare molto o molto poco al futuro della settimana, all'indomani. A meno che non ci siano esigenze contingenti o particolari preoccupazioni. Bisognerebbe vivere la domenica sera come ogni altro momento o comunque cercare di pensare alla domenica sera come ad un momento congelato in cui non bisogna aspettare nulla; 

2. Vivere meglio la settimana. Il senso di sconforto sopravviene perchè si pensa troppo all'indomani ma anche perchè l'indomani non ci piace. Questo è un problema. Si dovrebbe cercare di operare mentalmente sulla singola giornata e arrivare a considerare ogni giorno della settimana come un qualcosa di piacevole e nuovo. O almeno cercare di pensare che anche durante la settimana qualcosa per se stessi si può fare e se non è così bisognerebbe non aspettare il fine di settimana per farlo. Se si acquisisce un po' di tempo per se stessi ogni giorno, non è necessario aspettare il fine settimana (con il rischio di rimanere delusi) per dedicarsi a se stessi.
Riflettiamo su questo: quante domeniche sere sono tempo privo di significato? 

martedì 15 novembre 2011

in un tripduio di miccette...

"In un tripudio di miccette il governo è caduto e i suoi brandelli in cielo compongono la scritta: Zio cantante..."

Il profetico Elio ci fornisce il senso della situazione. E' caduto il governo: e adesso? 

Adesso boh. C'è una crisi pazzesca, c'è un debito fuori controllo, c'è una classe politica che non vale niente nè dal punto di vista morale nè da quello intellettuale. 
E intanto la ggente, come se nulla fosse, tira a campare. Si potrebbe dire che è giusto così, che così è sempre stato fatto. Che ha ragione la ggente a vivere alla giornata cercando di arrivare a fine mese perchè "loro, i potenti, sono più grandi di noi". 

Ma io non sono d'accordo. Non credo che si debba vivere così. Ci si dovrebbe interessare alla vita pubblica e politica e tenere sotto stretta osservazione i rappresentanti del popolo e vigilare attentamente sul loro operato. 

 Negli ultimi tempi mi sono persuaso del fatto che la vera colpa della misera situazione in cui ci troviamo sia da attribuire proprio alla ggente, al volgo, alla plebe. E' il suo qualunquismo, il suo menefreghismo, la sua negligenza a determinare una classe politica assolutamente inadeguata. Ma chi li ha votati i parlamentari? In Italia, grazie al cielo, c'è la democrazia, quindi è stato il popolo sovrano a  eleggere tali personaggi. 

Ci si lamenta spesso dei politici, delle loro disonestà e di tutti i loro difetti (attacamento alla poltrona, corruzione, inettitudine e chi più ne ha ne metta) con l'atteggiamento presuntuoso di chi non c'entra nulla con quelli là della casta. Invece c'entrate (e c'entriamo, perchè no?) eccome cari signori. Siamo stati noi a generare il baratro in cui qualcuno dice che ci troviamo. Chi li ha eletti questi? Dovremmo porci più spesso questa domanda e affrontare il problema con una lucida razionalità sopratutto quando in sede di voto si deve operare la scelta di chi andrà al potere e avrà la responsabilità delle sorti dello Stato. 

C'è un'altra idea che mi frulla in testa di questi tempi. 
E' l'idea della crisi. Si parla di crisi di qua, crisi di là. Mi sembra quasi che la crisi sia nella nostra mente prima che là fuori. La crisi delle coscienze, la vogliamo chiamare così? 
La crisi è un momento psicologico importante. E' l'ultimo gradino di una discesa e quindi il segnale evidente che le cose non funzionano nel modo in cui le stiamo facendo. 
Forse in Italia dovremmo ragionare un po' di più su noi stessi, su certi comportamenti che sono ormai parte di noi ma che non vanno più bene. Sulle nostre opinioni e le nostre certezze e magari provare a cambiare. 
La crisi è il momento in cui siamo avvisati che dobbiamo cambiare. E allora facciamolo. Iniziamo a interrogarci serenamente su quello che non va. Iniziamo ad affrontare i problemi che abbiamo senza nasconderci dietro un dito o dietro le solite scuse. 
E poi agiamo. 

Il risultato? non è certo. E allora? Chi se ne frega, proviamoci.


venerdì 4 novembre 2011

Due libri non recenti ma divertenti

Ecco due libretti letti di recente, ma non scritti di recente.

Il primo è un saggio di Pascal Bruckner intitolato: "il matrimonio d'amore ha fallito".

Si tratta di un piccolo pamphlet alquanto provocatorio che confuta l'ideale del matrimonio d'amore ma la cui tesi potrebbe essere estesa a qualsiasi tipo di relazione. Secondo il sociologo Bruckner il matrimonio d'amore è un desiderio realizzato dai nostri tempi e a lungo negato alle generazioni precedenti le quali hanno dovuto sopportare la necessità di un matrimonio imposto da altri. Poi con il Novecento ecco la conquista definitiva del matrimonio voluto e ricercato dagli sposi - amanti; una grande evoluzione sociale che ha permesso di affermare la libertà degli amanti di scegliere davvero con chi sposarsi. Ma con quale esito? secondo Bruckner, che provoca un po', forse il matrimonio d'amore e non per interesse è stato a sua volta annullato dal grande numero di divorsi e separazioni (più o meno burrascose) che ha caratterizzato la vita recente delal nostra società (si parla dell'occidente, ovviamente). Allora perchè non ritornare al matrimonio per interesse o comunque a quello che non ha aspirazioni idealistiche (non si idealizza il partner come avviene durante la fase "acuta" dell'innamoramento)? Sicuramente la non-aspettativa verso un qualcosa salva quella cosa dalla probabile delusione che si prova quando poi ci si imbatte nella dura realtà dei fatti.

Quindi la proposta è quella di limitare il sentimento e ricorrere alla razionalità cioè di sposarsi senza lasciarsi andare a trasporti emotivi che alla fine si tramuteranno nella maggior parte dei casi in delusioni e rancori tra gli innamorati. La razionalità invece imporrebbe un calcolo anche di interesse sulla bontà di una relazione e di conseguenza sulla sua possibile durata.

Condivido questa tesi? No. Sono d'accordo sul fatto che l'idealizzazione genera disastri ma forse troppo romanticamente tendo a considerare il matrimonio ancora l'utlimo baluardo a difesa dell'amore. Comunque la lettura di questo libricino è divertente e scorrevole.

Il secondo è un romanzo giallo (genere con il quale non ho molta familiarità) è una prescenegiattura di PIero Chiara. L'idea dello scritto era quella di preparare una storia per la trasposizione televisiva ed infatti nl 1970 venne realizzato uno sceneggiato diretto da Paolo Nuzzi che ha diretto anche "Il piatto piange" da un altro romanzo di Chiara.
Non leggendo molti gialli non so se si può considerare un giallo canonico o no., se cioè rispetta i canoni dil genere (ma in fondo chi se ne frega?). La trama è appasionante e la lettura scorrevolissima. Ci sono colpi di scena e si vuole andare avanti per vedere come va a finire. In soldoni mi è piaciuto.
Consiglio caldamente anche "il piatto piange" perchè lo stile di Chiara è leggibilissimo e insieme arguto e penetrante.
Pietro Chiara è il narratore della provincia che ha velleità urbane e che quindi si lascia andare ai vizi e della città perchè crede che così si possa liberare dall'arretratezza contadina che la caratterizza. Quindi i suoi personaggi, sono sempre in bilico tra una morale tradizionale, che ha radici nell'umiltà della povertà dalla quale provengono, e una imoralità modernista. Ma Chiara non è un misoneista e nei suoi romanzi non critica lo sviluppo, non è quello che gli interessa. Più delle storie sono i personaggi il vero centro dei suoi racconti, le loro reazioni agli eventi nefasti e le loro debolezze di fronte alla dura realtà. Credo che questa idea di fondo pervada e spieghi anche altre opere di questo autore che andrebbe letto sicuramente di più.
In conclusione: consigliato assolutamente.

P.s.
Spinto da un'irrefrenabile istinto semi suicida ho abbandonato la lettura de "I guerrieri della notte" di Sol Yuirick (non senza rammarico infatti avrei potuto vantarmi di: conoscere quasi a memoria il film; avere il cd della colonna sonora; avere lo stickers per giaccone "the warriors"; avere il videogioco per playstation; ed infine avere letto il romanzo. Così a carnevale avrei potuto anche acquistare il giubbotto dei guerrieri e travestirmi da Swan con una certa consapevolezza culturale) per iniziare la lettura di (udite udite!): Madame Bovary di Flaubert. Lo faccio per poter dire stronzosamente: "io almeno l'ho letto e tu?"

sabato 29 ottobre 2011

Clockers di Spike Lee

Ho finalmente visto fino alla fine Clockers. Erano anni che non riuscivo a vederlo fino alla fine per un motivo o per un altro. 

Spike Lee è uno dei miei registi preferiti, ha contribuito ad innovare fortemente il linguaggio cinematografico e ha imposto uno stile personale che è diventato il proprio marchio di fabbrica. Uno su tutti la tecnica del posizionare l'attore protagonista sulla macchina da presa con un effetto di contrasto tra il primissimo piano che evidenzia l'espressione solitamente contrita sul volto dell'attore e il movimento dell'ambiente circostante. Spike Lee ricorrre a questa tecnica quando il personaggio vive il suo momento psicologicamente peggiore all'interno del film, quando sta toccando il fondo o gli eventi sfuggono al suo controllo e prendono una piega assolutamente drammatica. 

L'interessante di Clockers è che ogni personaggio perde. Ogni singolo individuo presente nella storia alla fine subisce un danno o viene sconfitto. Il messaggio sembra essere proprio: "nessuno vince, tutti perdono". 

Un altro elemento interessante è la metafora del treno. Il personaggio principale ha la mania dei trenini. Il trenino elettrico è il simbolo del viaggio e della fuga, ma soprattutto è il desiderio di realizzare un qualcosa di andarsene dal ghetto dove non c'è salvezza. 

Apparentemente Clockers non è un film sociale come Fa' la cosa giusta o Jungle Fever. Nel primo il regista tenta di spiegare l'insorgere della violenza razziale e del conflitto. Ma mette soprattutto in guardia la società americana su quello che sta facendo (o ha fatto perchè il film e di qualche anno fa) nelle città e sul fatto che da un momento all'altro la situazione può degenerare. Pertanto per tutto il film si ha una sensazione di instabilità di e di tensione per l'attesa che prima o poi qualcosa accada. Nel secondo Spike Lee esplora il conflitto interrazziale declinandolo nelle dinamiche familiari e di genere. L'affresco che ne esce è più psicologico che sociale, almeno rispetto a Fa' la cosa giusta dove secondo me prevale il sociale sul psicologico, perchè si esplorano le reazioni che i singoli anno di fronte alle costrizioni sociali e i riflessi di queste nelle relazioni interpersonali. 

Rispetto ai precedenti Clockers segna una rottura. Non sono più le differenze razziali a fornire un comune denominatore alle vicende narrate ma altre dinamiche e tutti i personaggi si muovono su direttrici diverse rispetto ai film precedenti. Ad esempio quella criminalità/legge o redenzione/punizione vittoria/sconfitta. Ma è sopratutto quest'ultima che mi sembra più evidente. Ogni personaggio cerca di perseguire un obiettivo che alla fine rimane non realizzato. Ma se negli altri film l'elemento razziale è la cornice e la causa di tutti i mali perchè le disgrazie si ascrivono in fin dei conti alla colpa di essere "neri o bianchi", qui sembra esserci un destino suoperiore, una forza ultraterrena che impone l'incontrollabilità degli eventi e lo sfascio finale. 

A mio avviso è uno dei film più pessimisti di Spike Lee proprio perchè ci comunica che certe cose andranno male per forza e non ci si può fare niente in assoluto. 

lunedì 24 ottobre 2011

Il mio racconto senza x-factor

Qualche giorno fa ho saputo che la mia prima prova letteraria, il racconto "Il vecchio che dorme nel bosco", non ha superato la prima fase di selezione del concorso "Sospirolo tra leggende e misteri". 

Pazienza. Ci sono rimasto un po' male certo, ma sinceramente non mi aspettavo di ottenere chissà quale risultato. In effetti non sono sicuro di "essere" uno scrittore a tutto tondo e non penso che un semplice racconto (che ammetto essermi costato una certa dose di sudore: lettura e rilettura e scrivi e riscrivi e taglia e rimetti e via...) e la scarsa qualità stilistica dei miei post su questo blog lo testioniano inesorabilmente. 

Questo preambolo per esprimere qualche riflessione maturata ieri sera quando ho visto una replica dei nuovi provini di X-factor.

Due considerazioni. 
La prima: al di là del fatto che molti soggetti si presentano a quei provini tanto per passare una giornata diversa e poter dire agli amici: "Ho visto Morgan e Simona Ventura da vicino", ci sono quelli che ci credono realmente. Sono quelli che si presentano con la speranza sinceramente vissuta di essere "presi" e diventare stelle della musica italiana. Poichè da quanto si vede (o fanno vedere, che è tutta un'altra cosa) sembra che ci provino in molti, dovrebbe sorgere il dubbio che molti giovani, e anche diversi non più giovani aspirino a qualcosa di assolutamente velleitario perchè le loro esistenze non gli consentono di ottenere una piena realizzazione. Il fatto poi che molti di questi svolgono lavori non propriamente considerati desiderabili, sia per scarsità di retribuzione, sia per precarietà, mi suggerisce che magari in questo paesello, oltre alla tv altre vie di promozione sociale non esistano. Perciò il messaggio che passa è: se vuoi sfondare devi lavorare duro, ma solo facendo il cantante, perchè se provi a fare il medico, il professore, l'ingegnere (e permettetemi: lo psicologo), non riuscirai a combinare un c...o in quanto la nostra vecchia e decrepita società non ti metterà in condizione di concretizzare gli anni passati chino sui libri a farti il mazzo. 

La seconda considerazione è questa. 
La tv è essenzialmente finzione. Ricordo che una volta vidi un talk show in cui il compianto Gianfranco Funari (che di fare televisione, evidentemente se ne intendeva) sosteneva che lui avrebbe saputo far vincere un candidato alle elezioni piuttosto che un altro solo con l'uso delle inquadrature. Ci credo. In ogni modo la tv è finzione anche quando pretende di essere presa diretta del reale. Qualsiasi obiettivo fotografico o televisivo non è altro che un'opera di selezione del reale fatta a monte. Se riprendo una scena in un momento e la faccio vedere al pubblico sto decidendo cosa far vedere e come farlo vedere e sopratutto sto escludendo altre cose che non saranno viste. Quando poi interviene la fase di post produzione o il cosidetto montaggio, allora l'azione di selezione del reale, cioè di scelta di ciò che voglio sia fatto vedere, diviene ancora più consapevole.

Durante i provini di ieri mi ha colpito la storia di due sorelle che da anni non si parlavano e che presentandosi l'una all'insaputa dell'altra, si sono ritrovate nello stesso giorno a cantare. Una entra e canta e viene esclusa. Arriva la seconda e sembra passare, ma la giuria inizia a notare che questa concorrente è molto somigliante a quella di prima, allora iniziano ad indagare, a chiedere perchè e percome fino a far buttare fuori che le due sono in rotta da tempo.Ovviamente il tutto corredato da: lacrime, litigi, rifiuti, disperazione ecc. Diciamo che è stato il momento "Cepostaxte".
Probabilmente le due aspiranti erano sincere nel loro dolore, ma nel momento in cui la "giuria" le ha invitate a fare il duetto, ho avuto l'impressione che qualcuno, magari il regista o gli autori (non lo sapremo mai) abbia suggerito di chiamarle insieme per far sì che si creasse del "materiale" da mandare in onda. 

Qui ci ho visto un altro effetto ancora peggiore: la preponderanza della tv su tutto e tutti. La capacità di fagocitare il reale (nel caso in questione la relazione compromessa da anni delle due sorelle) e di trasformarlo in "materiale tv" da propinare al pubblico.

Sicuramente non dirò nulla di nuovo e altri, ben più esperti e consapevoli di questi meccanismi, potrebbero esporre una lezione molto più esaustiva sull'argomento. Eppure ecco la mia considerazione finale. Per quanto provi ad essere consapevole del funzionamento della tv, per quanto cerchi di essere uno spettatore attivo e scettico dei suoi contenuti, non riesco a sottrarmi all'ammaliante effetto di anestetico del cervello e mi lascio incuriosire dalle morbosità delle emozioni che la tv propina.











mercoledì 19 ottobre 2011

dylan dog- il film

Ho visto di recente Il tanto atteso film di Dylan Dog. Come fan di lunga data, anche se ora un po' meno assiduo, attendevo con trepidante attesa la trasposizione cinematografica del fumetto il cui precedente "Dellamorte Delamore" si era rivelato una semi delusione.

Quale è stato l'esito? Così così.

Perchè?

Perchè il problema fondamentale di un film su Dylan Dog è l'insormontabile paradosso che si crea quando gli unici a poterlo realizzare (per mezzi e soldi ecc) sono gli americani e gli unici che non lo dovrebbero realizzare sono gli americani stessi.

Gli americani sono bravissimi a tradurre i fumetti in film, basta guardare tutte le trasposizioni dal vecchio Batman di Tim Burton (il primo mi era piaciuto...) agli ultimi di Nolan senza tralasciare ovviamente i riuscitissimi X-Men. Ovviamente prendono anche loro delle cappelle, ma fondamentalmente le trasposizioni gli riescono bene.

Però Dylan Dog no. Non avrebbero dovuto farlo loro perchè non avrebbero mai potuto cogliere l'atmosfera underground del fumetto, le contraddizioni, la cultura elevata mista a quella pop, la melanconia del personaggio e tutto quanto ha caratterizzato questo comic nostrano.

D'altra parte qui da noi traduzioni di fumetti in film non se ne vedono almeno dalla morte del cinema di genere e mi pare che l'ultima decente sia stata quella di Diabolik di un certo Mario Bava (Bava dirige Diabolik è come Miyazaki che dirige Lupin III: that's incredible! a proposito ho rivisto proprio il castello di cagliostro: c'è tutto miyazaki negli stacchi della macchiana da presa e nel ritmo lento di certe sequenze).

Insomma da noi non ci stanno più abbastanza schei per rendere credibile un fumetto/film splatter come Dylan.

Allora dacci dentro Hollywood. E che succede?

Succede che ne esce un Constantine da poveri, cioè una storia in cui abbiamo un tizio privo di poteri soprannaturali che deve risolvere un enigma che coinvolge un mondo notturno alternativo a quello diurno e deve fronteggiare vampiri e licantropi (che udite udite: si odiano! Come nella migliore tradizione Twilight, Underworld et similia). Embè? Tutto qui? Purtroppo sì. Perchè il nostro indagatore dell'incubo, probelmatico ma disposto a credere nell'ignoto e nel soprannaturale è diventato un detective privato che ha addirittura il ruolo magico di essere il guardiano del mondo altro di vampiri e company. Ma dai, ma che c'entra!

Ma vediamo nel dettaglio le deviazioni rispetto al fumetto e capiamo dove il film pecca:

1. il personaggio
Dylan Dog originale è un ex poliziotto, ex alcolizzato, che fatica ad arrivare a fine mese con le 100 sterle più le spese che recupera (quando gli va bene) dai pochi clienti che ha. E' pieno di paure, misoneista, è propenso a perdere ingenuamentela testa per ogni femmina che incontra, è molto autoironico, è magro e affamato e costantemente fuori moda e al verde. Insomma è l'antieroe. Il D.D. del film è un figo, senza macchia e paura, muscoloso ed esperto dell'arte dell'investigazione, che dà del tu a tizio e a caio (i vari "mostri") come manco fossero i suoi compagni di scuola. Sicuramente era troppo pretendere che fosse Rupert Everett ad interpretare il personaggio, ma almeno non che fosse Brandon Routh che ha fatto Superman ( e infatti per superman il fisique du role ce l'ha).
Ma il problema vero non è la somiglianza fisica, è proprio l'aver stravolto l'essenza del personaggio: da antieroe problematico a ganzo che spacca il mondo. Non basta vestirlo uguale, fargli dire "right" (pessimo nella versione italiana), o "giuda ballerino". Non è più lui. Si è creato un personaggio ex novo che mi sembra perarltro molto piatto (e qui anche l'attore contribuisce con la sua minima capacità espressiva).

2. la location
Da Londra a New Orleans. Londra è la patria di Jack Lo Squartatore, nel fumetto è una città che spesso si trasforma in qualcosa di vivo o quanto meno di posseduto da demoni e spiriti che la plasmano, la deformano, la piegano. Ti perdi nella nebbia di Londra e ti ritrovi sgozzato in una pozza di sangue ai Docks. Londra è una città in cui puoi ambientare un horror. E' insomma una componente essenziale delle storie di Dylan. N. O. cos'è? Forse nella mentalità americana è la città più misteriosa che hanno, ma solo per tradizione culturale (vodoo et similia), come si capisce dalle interviste ai produttori presenti nel Dvd (almeno l'edizione che ho io). In realtà non c'entra nulla con la storia nè il personaggio. Non dice nulla.
Si poteva ambientarlo a New York e l'effetto sarebbe stato molto più simile a quello del fumetto.

3. Groucho, la spalla.
Vabbè, sarebbe stato troppo difficile mettere la maschera ad uno e fargli interpretare Groucho; l'esito sarebbe stato poco credibile. Allora lascialo solo. Che c'entra Marcus? E' la spalla comica che sopperisce alla mancanza della spalla originale. Quindi dovrebbe fare da controparte umoristica inserendo la componente humor che attenui la paura. Il problema che nell'originale l'humor è provocato dalle strampalate barzellette e dalle assurde battute non sense di Groucho; qui da un personaggio maldestro e buffo. Siamo su due piani troppo diversi.

4. il maggiolino
Nell'originale è bianco, nel film è nero: questa me la devono spiegare perchè non l'ho capita.

5. il ruolo di Dylan
Da investigatore dell'incubo a custode e arbitro di un'eterna lotta tra due fazioni che segretamente vivono su questa terra all'insaputa di noi poveri e ignari umani. Ma per favore!

6. lo splatter
Quello almeno è rimasto. Solo che nell'originale le situazioni sono ironiche. L'horror è spesso incorniciato in una situazione in cui viene demistificato dalla battuta o dal gesto ed è funzionale a comunicare l'assurdo. Nel film è un po' fine a se stesso (impressionare o spaventare) e comunque ci sono film molto più splatter e sanguinolenti di questo.

7. Il rapporto con la polizia
Manca il commissario Bloch che è diventato nel corso degli anni un personaggio assolutamente fondamentale del fumetto. Nel film si accenna brevemente al fatto che Dylan conosca i poliziotti...che è un po' come dire che conosce i vigili del quartiere.

In soldoni, si poteva fare diversamente? Sì.
Si poteva fare meglio? Forse. Forse il soggetto è troppo difficile da essere tradotto in film, oppure se proprio ci si vuole cimentare nell'impresa che almeno si faccia più attenzione e ci si metta un po' più di cura. In giro si vede di meglio sicuramente.

venerdì 7 ottobre 2011

una frase di Job

"Non vivete la vita di qualcun'altro"
è una delle frasi del discorso tenuto all'università di Stanford che mi ha molto colpito.

Potersi dedicare pervicacemente alla realizzazione dei propri desideri... cercare di fare un lavoro che appassiona perchè se no il lavoro è solo una schiavitù.

Quali insegnamenti migliori?

A volte penso al fatto che tutti noi siamo destinati a morire. Ci pensate? Ci pensiamo abbastanza?
Dovrebbe essere un pensiero quotidiano, quasi connaturato alla nostra essenza, invece è solo una paura rimossa e gettata nell'oblio dell'inconscio.
Ma poi l'inconscio si fa sentire ed ecco che la paura ritorna, magari sotto altre forme, come ci ha insegnato Freud.
Ma questo é un altro discorso...

Sono troppo esistenzialista? Vabbe' abbiate pazienza, ma sono convinto dì quello che scrivo (dico).
Fine

giovedì 6 ottobre 2011

Steve Jobs

Avrei voluto scrivere un post su un film che ho rivisto di recente: l'uomo dei sogni con Kevin Costner. Ma è morto Steve Jobs.
Non sono il tipo che si straccia le vesti per la morte di un uomo famoso o che scende in piazza a deporre fiori piangendo come per Lady D. ma quando questa mattina ho letto la notizia ho provato molta tristezza.

Mi ha rattristito pensare che un personaggio come Jobs che ha fatto davvero qualcosa di rivoluzionario (e ha anche saputo esprimere grandi idee: vedere il discorso all'università di Stanford: http://www.youtube.com/watch?v=oObxNDYyZPs) se ne sia andato.


Mi rattrista constatare chi rimane qui in Italia oggi. Ho pensato alla crisi che stiamo attraversando che non è solo economica, come ci si ostina ottusamente a pensare, ma è soprattutto di coscienze.
Stiamo vivendo una crisi psicologica che investe la nostra comunità di cui quella economica è solo un riflesso o se volete un sintomo.

Steve Jobs se ne va e da noi rimangono i nostri politici... guardateli e vergognatevi perchè li avete votati voi.

Ma forse non è giusto parlare di Jobs e dei politici italiani; forse non c'azzecca niente il paragone. Sono solo pensieri in libertà nati da un senso di scoraggiamento e tristezza per la scomparsa di un uomo ammirevole.

giovedì 29 settembre 2011

Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.

Non l'avevo mai letto prima (Che ignorante!) e mi ero ripromesso di leggerlo prima o poi.
Temevo che fosse insulsamente zuccheroso perchè ero stato fuorviato dalla stucchevole Alice, personaggio terribilmente interpretato da un'acerba Violante Placido nel film Jack Frusciante è uscito dal gruppo (mediocre adattamento di un capolavoro).

E' un testo poetico, denso di simbolismi. Sicuramente non è un testo per bambini. Potrebbe essere indirizzato ai ragazzi delle medie anche se mi permetto di osservare che non lo capirebbero.

Che dire è sicuramente un classico e pertanto è oltre il tempo. A tratti è commovente, altre volte è illuminante.

Non sono una persona melensa e mi danno fastidio le melensaggini ma riconosco che "il piccolo principe" mira a parti profonde della psiche collettiva e centra quei temi universali (amore, amicizia, instaurare una relazione e mettersi in relazione con il prossimo) che sono stati interiorizzati dal nostro io profondo.

Ultra consigliato!

martedì 20 settembre 2011

Segreto di Stato - intervista a Giovanni Pellegrino

Sebbene questo sia un blog essenzialmente di cazzeggio non è nella mia indole lasciarmi andare a cavolate e abbandonare ogni preoccupazione dell'esistenza. Certamente l'evasione dai fatti contingenti è una necessità e ognuno dovrebbe essere capace riuscirci per salvaguardare la propria mente da un eccesso di pensieri "pesanti". Ma un minimo di luce nell'oblio della mente dovrebbe rimanere sempre (come la candelina della torta di compleanno..).

Questa lettura mi è capitata per caso tra le mani in un sabato mattina in cui avevo deciso di mettere a posto la mia cantina (in verità qualcun altro aveva deciso per me...).
Non è quindi un libro che avevo acquistato io e pertanto non ne ero a conoscenza. Ma avendo letto tempo fa il volume di Priore "Affari internazionali", mi ha subito colpito e l'ho slavato dal pesante cartone che è finito sepolto nel garage dei miei.

Si tratta sostanzialmente di un'intervista a Giovanni Pellegrino, condotta di a Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, che verte sulla sua relazione finale per la commissione stragi del Parlamento che ha presieduto fino a qualche anno fa.

Ho letto quest'intervista avidamente. Non vedendo l'ora di tornare a casa dal lavoro per riprendere in mano il volume.

Credo che sia quanto di meglio ed esaustivo possibile si trovi in giro per capire cosa è stato il periodo politico dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino in Italia. Sopratutto perchè, al di là di ogni dietrologia possibile, si perviene all'essenza dei fatti.
Il volume non è interessante per la ricostruzione storica in se, che pure è presente, ma per la luce che viene gettata su alcuni fatti e sopratutto per la chiave interpretativa che ne viene fornita.

Sicuramente un altro testo di sicuro interesse a riguardo quello di Rosaro Priore. La tematica è la stessa e la chiave con la quale si interpretano i fatti e le realtà indicibili (perchè non possono essere raccontate ad un'opinione pubblica che non capirebbe prima di non accettare quello che è successo) è sicuramente coerente tra le due opere: l'Italia dell'epoca era al centro di una direttrice di potere est- ovest (la Nato contro il Patto di Varsavia) ma era anche al centro di un'altra direttrice chiamata "Nord-sud" che ha coinvolto altri stati interessati a sfavorire l'Italia nel suo sviluppo all'interno del Mediterraneo.

Aspetto di poter leggere "il golpe inglese" di Cereghino e Fasanella, perchè tutti e tre i volumi costituiscono una trilogia imperdibile e temo molto attendibile.





sabato 17 settembre 2011

Una pazza giornata di vacanza di J. Hughes

Credo che Matthew Broderick sia un attore incredibilmente sottovalutato. Non so come mai da promessa degli anni ’80 si sia via via defilato verso produzioni meno importanti. Ha fatto qualche blockbuster come Godzilla, ma l’impressione che ho è che Holliwood lo abbia in fin dei conti relegato a ruoli marginali.

Il film che l’ha praticamente lanciato è stato War Games che ancora oggi, seppure ingenuo in tempi di internet (il protagonista scopre come entrare in un sistema militare grazie ad una semplice backdoor che si rivela essere anche troppo banale), rimane una pietra miliare dei film sugli Hackers e sulla interazione uomo macchina. Ma c’è un altro filmetto carino che fa parte del filone scolaro-giovanilistico all’american pie che è quasi dimenticato: Una pazza giornata di vacanza di J. Hughes.

È una storia abbastanza assurda, con molto metacinema e slapstick ma diretto e sceneggiato egregiamente in modo che il ritmo della storia non cali mai. Ma la cosa importante è che si regge unicamente sulle spalle di Broderick che dà sfoggio della sua capacità di sostenere perfettamente il ruolo del gigione truffaldino e scavezzacollo. L’operazione riesce bene e il film è divertente.

E’ un filmetto da riscoprire anche con un pizzico di nostalgia per quelle commedie scolastiche americane (tipo Porkys) che hanno segnato l’immaginazione di chi come il sottoscritto è cresciuto negli anni ottanta.

Una cosa infine. Ma sono io che non ci vedo bene o Alan Ruck da giovane è il sosia di Edward Norton? Sono così uguali che ho sempre creduto che questo fosse uno dei primi film in cui recitava Norton. Alla Napval insomma...

The rocker di Peter Cattaneo

In questi giorni travagliati per la nostra economia, in questi giorni in cui le preoccupazioni per il nostro futuro si fanno più assillanti, in questi giorni in cui gli speculatori buttano benzina sul fuoco dei nostri problemi per guadagnare disgustosamente sui nostri guai, concediamoci di staccare il cervello per un momento in attesa di ritornare sui campi di battaglia.

The rocker di P. Cattaneo è proprio quello che ci vuole.
E' un filmetto carino, di buoni sentimenti ma non sdolcinato con un discreto cast che strappa qualche risata in modo onesto. Diciamo che si lascia guardare. Alla fine è un po' scontato ma non dà il voltastomaco come certi telefonatissimi finali americani.
Unica nota stonata, che avrei evitato è nella seguenza iniziale in cui il protagonista è scaricato dalla propria band e insegue i compagni che fuggono come neanche il cane Ivan XXXII il terribile di Fantozzi.

Pare che la storia sia stata ispirata dalla vicenda, oramai passata alla storia, di Pete Best "il quinto beatle", che venne escluso dal gruppo dei beatles e sostituito da Ringo Starr poco prima che il quartetto raggiungesse la notorietà ed entrasse nella storia della musica pop. Ovviamente la vicenda è buttata sul ridere ma lo spunto è buono.


A proposito di Pete Best mi viene in mente un altro film in cui si parla di un altro beatle che fece parte del gruppo originario e poi messo da parte: Stuart Sutcliffe detto Stu.
Non conoscevo l'esistenza di questo bassista che fece parte dei beatles per un anno tra il '60 e il '61 prima di vedere il bel film Backbeat di Lain Softley.


Questi collegamenti mi fanno venire in mente che vorrei fare qualche post monografico su film a tema in particolare di musica e sport. Se si prende lo sport ce ne sono tanti ad esempio sul calcio e molti sul football e sul baseball. In questo gli americani sono più bravi di noi ad ambientare trame sui loro sport preferiti.


Prossimamente...

lunedì 12 settembre 2011

ahi ahi ahi ahi ahi ahi

Dopo anni e anni di autoanalisi ho finalmente capito qual è un aspetto saliente del mio carattere: l'indolenza.
Ecco che questo blog è figlio della mia indolenza per cui se non lo aggiorno da fine agosato è perchè sono indolente.
Fate attenzione: non ho minimamente intenzione di abbandonare questo blog; solamente mi trovo nella difficile situazione di: lavorare 9 ore, più 1 ora di pausa pranzo, più altri 90 minuti di tragitto andata e ritorno da casa per il totale complessivo di 11 ore e mezza e tornare a casa con nessuna voglia di piazzarmi davanti al pc a scrivere qualcosa.
Sono consapevole che una persona altamente motivata troverebbe la forza di mettersi al pc.
Mah, diamine, non è il mio caso.
Scrivo questo proprio adesso, dopo aver passato le suddette ore al lavoro, e quindi in realtà sconfesso me stesso confermando che al blog ci tengo: paradossale no?
Boh, sono troppo stanco per rifletterci sopra.
Adieu...

martedì 30 agosto 2011

Trainspotting di Irvine Welsh

Preferisco usare il termine “riduzione” cinematografica a “trasposizione” cinematografica per indicare il trasferimento di un racconto dalla versione cartacea a quella filmica. Questo perchè il termine riduzione mi sembra che si addica di più a definire l'operazione che deve svolgere uno sceneggiatore quando deve rendere funzionale al grande schermo una storia nata sulla carta. Effettivamente un romanzo è molto di più di un film. Nel romanzo ci sono sfumature, descrizioni e dialoghi stessi che non possono essere resi in un film se non con un incisivo intervento delle forbici.

E' il caso di Trainspotting di Irvine Welsh. L'ho letto quest'estate dopo averlo trovato per caso nella fornita biblioteca dei miei suoceri (mi sorge un dubbio dell'ultima ora: gliel'ho restituito?).

Il film di Danny Bolyle, tratto dal libro, ebbe un impatto dirompente negli anni '90. Diciamo che venne proposto come film scandalistico dell'anno, come spesso succede ogni tanto con qualche film (da arancia meccanica in poi...). Il motivo probabilmente risiede nel fatto che si parlasse in maniera diretta ed esplicita di droga e drogati. Il film ebbe inoltre il merito di far conoscere ad un pubblico internazionale attori quali Ewan McGregor, Jonny Lee Miller e robert Carlyle ai quali sono state proposte parti più o meno felici in diversi altri film di media e grande caratura.

Il libro però ha un senso sostanzialmente diverso. Cioè descrivere delle psicologie di personaggi che hanno a che fare con la droga ma che non possono essere identificati solo con essa. Sì, sono tutti più o meno utilizzatori, ma la disamina dei loro comportamenti non è legata all'uso degli stupefacenti. La droga è il collante della narrazione e sebbene abbia un ruolo di primo piano ne diventa il pretesto su cui svolgere la successione degli eventi. Il libro di Welsh non è una storia su dei ragazzi drogati; è una storia su dei ragazzi britannici, o scozzesi se preferite, che durante la loro esistenza si drogano e lo fanno senza una ragione apparente come se fosse l'unica possibilità che gli viene concessa di trovare una dimensione altrimenti impossibile.

Non credo che l'intento di Welsh fosse sociologico, ma è evidente che dalla lettura del testo si evince la constatazione che la società scozzese è allo sbando ei questi ragazzi non hanno più la possibilità di trovare in essa una collocazione sicura. In un passo del libro si dice esplicitamente “La Scozia si droga per difesa psichica”. Il senso del libro è riassunto qui. La droga è una difesa messa in atto dai protagonisti contro una società che non sa che farsene di loro. Rent, Spud e Sick Boy si difendono con la droga ma altri personaggi si difendono in altro modo: Frank “Franco” Begbie con la violenza, Tommy con l'amore, Gail con il sesso.

La differenza sostanziale tra libro e film si ha nell'impostazione della narrazione. Il film procede dal punto di vista di Rent. Il libro è un insieme di tante narrazioni. Si tratta di un racconto corale a cui partecipano i diversi personaggi della storia; ognuno protagonista di una vicenda differente. Ovviamente tutta la narrazione è in prima persona.

Stilisticamente Welsh si preoccupa di favorire il “salto” tra un personaggio e l'altro ricalcando linguaggi è intercalari diversi. Ogni personaggio parla in modo differente, chi inframezzando parolacce chi in modo allucinato. Tutto ciò nel film si perde a favore di altre scelte stilistiche come ad esempio l'insistente colonna sonora tecno.

Lo consiglierei? Non è un testo fondamentale ma la lettura è scorrevole ed è il libro che ha imposto Welsh come uno dei principali esponenti della narrativa inglese contemporanea e quindi direi di sì. Se si è in cerca di qualcosa di leggero ovviamente è meglio di no. Diversi punti sono crudi e l'episodio della bimba di Lesley è raccapricciante. Se si ha lo stomaco forte e si passa questa parte del racconto ci sono anche delle parti esilaranti. Chi ha visto prima il film può godersi un approfondimento sui personaggi e sugli eventi. Ma la linea principale della narrazione è mantenuta e pertanto ne può fare anche a meno.


venerdì 26 agosto 2011

Un tributo a Kevin Smith

Da un po' di tempo mi ripromettevo di scrivere un post di tributo ad un regista e autore che di diritto risiede tra i miei preferiti di sempre: Kevin Smith.


Colgo questa occasione perchè ieri sera, grazie al provvidenziale intervento di una pay tv, sono riuscito a vedere finalmente un film introvabile in Italia: In cerca di Amy. Questo film del 1997 è uno dei primi del regista ed è effettivamente difficilissimo da reperire. Non c'è nè il dvd nè la versione in vhs (ma che senso avrebbe ormai averla?) e anche su altri "canali" non è semplice riuscire a trovarlo. Ieri sera mi sono stupito di vederlo programmato in seconda serata pertanto mi sono chiesto se effettivamente è vero che durante l'estate si raschia il barile dei palinsesti e se tale pellicola sia introvabile perchè ostaggio di malvagi approfittatori che ne consentono la visione solo nelle seconde serate estive senza dare minima pubblicità alla cosa (la prima opzione è forse la più probabile...)



Era il primo anno di università e in una mattinata libera dalle lezioni e di assoluto cazzeggio, consultando la vasta videoteca di mio padre (che oltre ad una fornitissima libreria ha anche una sconfinata collezione di film; che ci volete fare c'è chi nasce privilegiato e chi no. Io non sono nato certo in una famiglia altolocata o di miliardari, ma in una in cui la cultura è sempre stata considerata un valore importante e anche un hobby pregevole), mi ritrovai in mano la videocassetta di un filmetto di un autore sconosciuto di cui avevo sentito parlare da qualche parte ma di cui non ricordavo assolutamente dove. Il film si intitolava "Clerks – commessi" e il regista era appunto Kevin Smith.



Fu una folgorazione. Girato in bianco e nero con pochissimi mezzi (Smith ha asserito di aver reperito i fondi per girarlo dalla vendita della sua collezione di fumetti! Poi fortunatamente ricomprata grazie ai soldi del successo), con attori sconosciuti, in un ambientazione praticamente iper-realistica (un posto dove ha realmente lavorato), con assoluto rispetto delle unità di tempo luogo e azione e con dialoghi micidiali.C'era tutto! E' difficile trovare condensati in un'unica opera tutti quegli elementi estetici che ci fanno piacere una qualsiasi opera artistica ma pensai subito che con questa Smith ci era evidentemente riuscito. La cosa interessante è che il film ricevette anche diversi premi, primo fra tutti un riconoscimento al Sundance Film Festival.



La filmografia di Smith non è vastissima, al momento conta solo 9 film a cui vanno aggiunte anche una serie di apparizioni, in ruoli minori o cameo in altre pellicole più o meno note (un esempio è l'ultimo Die Hard in cui interpreta l'hacker che aiuta Bruce Willis). La prima parte è molto underground (clerks, generazione X, In cerca di Amy), successivamente le produzioni si sono ingrossate e sono arrivati attori quotati e soldi a disposizione (Dogma, Jersey girl, Zack e Miri e Poliziotti Fuori).


Allo stato attuale Kevin Smith è considerato ancora un autore "indie" al quale piano piano l'empireo di Holliwood sta dando credito concedendogli fondi maggiori. Questo probabilmente perchè, a detta dello stesso autore, il suo punto di forza sono i dialoghi più che le scene di azione. Infatti Smith è un notevole dialoghista più che un vero e proprio narratore e la maggior parte degli snodi narrativi delle sue opere nascono più dalle discussioni tra i protagonisti che vengono a conoscenza di fatti o storie che li turbano, che attraverso un evento o azione esterno.



Ma Kevin Smith è anche un autore di fumetti, di sceneggiature e produttore di film (guardare per credere tra i credits del celebre Will Hunting – genio ribelle, e poiché negli States ha raggiunto negli anni una certa notorietà (qualche tempo fa aveva un suo spazio all'interno dello show di Jay Leno, che era seguitissimo in America), qualche volta gira per le università e i teatri nordamericani a tenere conferenze sulla sua attività. Di questi incontri esistono anche i dvd, in paticolare i due intitolati "An evening with Kevin Smith" e "An Evening with Kevin Smith – even harder"; la cosa stupefacente è che in Italia è stato distribuito solo il secondo in lingua originale e con i sottotitoli e non il primo che è anche meglio. Il perchè è' un mistero che sarà risolto più o meno quando si capirà realmente come hanno costuito le piramidi...


E'interessante il fatto che in ogni storia scritta da Smith ci sono sempre gli stessi elementi ricorrenti. E' una sorta di continuità nella citazione che piace ai suoi fans i quali si dilettano a scoprirne le ricorrenze che sono:





  • Guerre Stellari, alpha e omega della sua formazione culturale, è presente sempre nei dialoghi tra i protagonisti (andate a vedere quello sulla "posizione politica" delle maestranze della morte nera ne "Il ritorno dello Jedi");




  • l'Hockey di cui è grande appassionato, i suoi protagonisti o ci giocano o guardano sempre qualche partita;




  • il New Jersey, quindi la provincia, sul quale ha girato la trilogia (generazione x, Jersey Girl e In cerca di AmY) sopratutto se in contrapposizione alla città che identifica per antonomasia in New York;




  • la religione cattolica, il credo della sua famiglia, ma ovviamente in senso ironico o autoironico, come in Dogma che rappresenta la summa del suo pensiero sulla Religione.



Esistono poi altre tematiche che rimangono sullo sfondo o che fanno da collante alla storia, come il tema dell'amicizia in contrapposizione al rapporto uomo – donna (attorno a cui ruotano tra le altre cose Clerks e Clerks II ma sopratutto In Cerca di Amy); la curiosità morbosa dei ragazzi per la precedente vita sessuale delle proprie fidanzate (da cui nascono sempre incomprensioni e tensioni); la cultura pop in generale, quindi i film e i fumetti in particolare di cui Smith è anche autore.



Allo stato attuale purtroppo i suoi libri non sono stati tradotti e difficilmente credo che lo saranno. Si tratta per lo più di raccolte dei suoi articoli su varie fanzine e riviste e dei suoi post sui blog da lui curati.



Ero abbastanza scettico sul fatto che distribuissero Zack e Miri make a porno, e quando ho visto il trailer mi sono stupito non poco. Il film ha girato per qualche giorno nelle nostre sale e spero che facciamo presto il dvd perchè ovviamente quando c'era un film che mi interessava al cinema non ci potevo andare.



Dopo poliziotti fuori, in cui recita Bruce Willis, si attende il suo film del 2011 che dovrebbe essere un horror. Sebbene non sia tra i miei generi preferiti attendo impaziente di poterlo vedere.



The end.















lunedì 22 agosto 2011

Getta la mamma dal treno di Danny DeVito

Ecco un filmetto che all'epoca della sua uscita avevo perso. E' del 1987 ed è diretto molto bene da Danny DeVito che oltre ad essere un formidabile attore dimostra di saperci fare anche dietro la macchina da presa.

E' la storia parallela di due personaggi aspiranti scrittori oppressi entrambi da due terribili figure femminili, la moglie per Billy Cristal (attore che secondo me ha avuto poche occasioni per potersi esprimere al meglio), la madre per Danny DeVito (una garanzia di qualità attoriale e autoriale).

La trama è ovviamente molto leggera, ma coinvolgente. Non mancano quindi situazioni esilaranti. Una su tutte la scena del treno con i due protagonisti e Anne Ramsey che interpreta la tirannica madre di DeVito.

Da vedere per dimenticare tutto il resto.

venerdì 29 luglio 2011

Il simbolo perduto di D. Brown - lettura estiva



Ho da poco finito l'ultimo di Dan Brown. Quando uscì l'anno scorso (o due anni fa, non ricordo) decisi di non comprarlo per tenermelo da parte per momenti propizi. L'estate è uno di questi; Dan Brown è infatti una lettura estiva.





È un po come quando si vede un blockbuster. Tanti effetti speciali ma poca sostanza. In realtà qui la sostanza sembra esserci. L'autore è uno storico dell'arte e sembra scrivere quindi con cognizione di causa. Ovviamente si tratta sempre di un'opera commerciale a dispetto del messaggio mistico che vorrebbe trasmettere al volgo mondiale.





Ho la sensazione che Brown provi una certa venerazione per le unità aristoteliche di tempo, luogo e spazio. È il quarto romanzo che leggo di quest'autore e ricorrono sempre tre caratteristiche che penso ormai siano la sua ricetta preferita per costruire una storia.



La prima è il mantenere lo svolgimento dei fatti entro luoghi molto ristretti spazialmente, e soprattutto entro un arco ristretto di tempo: qualche giorno o un solo giorno addirittura.



La seconda è il ricorso spasmodico al flashback di cui Dan Brown è secondo me un maestro. La sua tecnica consiste infatti nel procedere lentamente con la trama principale che è costantemente intervallata da rimandi al passato con il duplice fine di spiegare le premesse allo svolgimento presente (ad esempio approfondire un'esperienza passata del personaggio) e riempire i numerosi capitoli. Il simbolo perduto si svolge praticamente in una nottata. Ma sono la bellezza di 600 e passa pagine che bisogna sorbirsi prima di sapere come va a finire. Intendiamoci, la maestria di Dan Brown è proprio quella di non far cadere mai la tensione e di aprire come nelle scatole cinesi un enigma dopo l'altro in modo tale che si rimanga attaccati alla storia e ci si chieda sempre: " e poi che succede?".



La terza ed ultima, che si trova anche in Patterson (e secondo me portata all'estremo), consiste nel presentare capitoli molto brevi, di due o tre pagine in modo tale che la lettura sia molto veloce.





In questo romanzo Dan Brown ha inoltre introdotto un altro stratagemma, rivolto secondo me ai più fanatici, cioè l'inserimento di enigmi esposti manifestamente al lettore, attraverso schemi, mappe e riferimenti artistici reperibili nella realtà, che possono essere risolti anche dai lettori. In pratica il romanzo diventa un libro-gioco interattivo che sfida il lettore e lo coinvolge anche oltre il racconto.





In sintesi. Come gli altri precedenti, a me è piaciuto. Ma a me la sua ricetta piace molto. È un po' come la torta che preferite, quella che non ci si stanca mai di mangiare e sulla quale ci si butta quando si ha fame e ci si trova in momenti di vuoto creativo - culinario.





The end.





 



 



 

lunedì 25 luglio 2011

Limitless di Neil Burger

Ho perso la scommessa di scrivere ogni giorno di vacanza su questo blog. Io stesso mi sono dato 10 a 1 consapevole di quanto fosse difficile vincere.


Avendo tradito il patto gli dei di internet mi hanno punito e hanno mandato pioggia e vento per cui non posso andare a rosolarmi sulla spiaggia. Poco male, mi piace camminare vestito sul bagnasciuga alla flebile luce del tramonto. Mi fa venire in mente il finale de "I guerrieri della notte" di Walter Hill. Film stupendo che ha contribuit0 enormemente alla mia formazione culturale di adolescente cresciuto negli anni ottanta.


Volevo comunque dire le mie impressioni su questo Limitless, visto il mese sorso al cinema.
Lo spunto è buono, la pillolina che fa usare il 100 % del cervello rende quasi dei semidei, appunto limitless - senza limiti, e sebbene nel complesso il filmetto sia godibile qualcosa non mi torna. Innanzitutto la parte centrale rallenta notevolmente, si ha la sensazione che si allunghi la minestra oltre il dovuto. Poi non capisco a quale genere ascrivere questo film. Non è sicuramente una commedia alla Jim Carey, tipo una settimana da dio, perchè il tono è molto più fosco, direi drammatico. Basta vedere il personaggio di Bradley Cooper che mi sembra troppo caricato in negativo, quasi si trattasse di un dramma esistenziale. Non è neppure un film di fantascienza perchè sebbene sia presente un'idea fantascientifica alla base del plot, francamente mi sembra pochino per definirlo un film di genere.


A parte queste considerazioni sulla natura della pellicola, mi ha lasciato perplesso De Niro. non capisco la sua funzione all'interno del tutto. Si cala nella parte ma non dà quel quid in più che ci si aspetterebbe da un attore del suo calibro. Spero che abbia accettto un cachet più basso del solito perchè fa proprio il minimo sindacale.

In sintesi si può vedere anche se non è un capolavoro.

lunedì 18 luglio 2011

La linea d'ombra di Joseph Conrad

Ho riletto "La linea d'ombra" di Joseph Conrad per il desiderio di voler cogliere dopo qualche anno quelle sfumature del testo che all'epoca non avevo colto. Non ricordavo bene la trama sebbene sia abbastanza semplice ma soprattutto non ricordavo i punti salienti di uno svolgimento che ruota tutto intorno alla situazione elementare nei fatti ma psicologicamente complicatissima in cui si trova il protagonista.





È un romanzo vagamente autobiografico in quanto Conrad in gioventù ha effettivamente preso servizio come ufficiale nelle navi mercantili inglesi in Oriente. Si parla infatti del Primo comando di una nave a vela, assegnato al protagonista, promosso capitano per l'occasione. Il compito è apparentemente semplice: è morto il capitano di una nave inglese ancorata a Bangkok e va ricondotta in patria. Solo che in un'epoca in cui già esistono le navi a vapore, comandare una nave a vela senza vento e con un equipaggio martoriato dalla febbre si rivela un compito arduo.





Nonostante l'ambientazione marinaresca è un romanzo psicologico, più che di avventura. La linea d'ombra del titolo, una sottile linea d'ombra, è quel confine che separa la giovinezza dalla età adulta.



Il protagonista si trova infatti a dover superare forzatamente quel confine e a maturare un'esperienza anche dolorosa che gli sarà necessaria nella sua formazione di uomo adulto. Ma oltre a ciò è anche una analisi delle psicologie dei diversi uomini dell'equipaggio e del loro modo personale di affrontare le avversità.





Nella prefazione dell'autore si parla anche di un titolo alternativo per il libro: Primo comando. Sarebbe stato appropriato anche questo ma sicuramente meno suggestivo di quello divenuto poi ufficiale.





Forse Conrad è più conosciuto per "Cuore di tenebra" che ha avuto più di una riduzione cinematografica, tra cui la versione coppo liana e trasferita nel Vietnam "Apocalipse now", però anche questo agile romanzetto ha molto da dire a chi cerca di capire cosa vuol dire diventare adulti.





È una lettura che consiglio di affrontare con una certa pazienza soprattutto per poterne cogliere pienamente i significati narrati e arrivare dunque a capire quale sia la propria linea d'ombra.



Non riesco a postare

Non riesco a pubblicare il mio post su La linea d'ombra. Arghhhhh!

venerdì 15 luglio 2011

Rocky Balboa. C'è poco da dire, per quanto abbia cercato di recitare altri ruoli cinematografici, Sly Stallone rimarrà sempre legato a due icone del cinema degli anni '80: Rocky Balboa e John Rambo.

Essendo cresciuto in quel periodo e conoscendo quasi a memoria tutta la serie, negli ultimi anni ho dovuto lottare tenacemente con la mia coscienza per non vedere questo film. Alla fine ho perso. Può essere un problema. Oramai sono assuefatto a Rocky, non posso farne a meno; se Stallone decidesse di farne un telefilm sarei costretto a guardarlo.

Il fatto è che questo ultimo capitolo della serie non sembra concludere un bel niente. Troviamo Rocky oramai integrato nuovamente nel suo quartiere, vedovo e proprietario di un ristorante italiano (con cuochi messicani!). Dispensa consigli sulla vita a destra e manca, firma autografi perchè è osannato da tutti come eroe indiscusso e passa le serate a raccontare a tutti gli avventori del suo locale episodi e aneddoti del suo passato. Con la boxe non ci azzecca più nulla se non in vecchi filmati della tv e vecchie fotografie appese alle pareti del ristorante. Ma siccome è insoddisfatto della vita e gli viene proposta un'altra possibilità ecco che sale nuovamente sul ring.

L'episodio dell'ultimo incontro di boxe è una mezza boiata. Quasi non serve alla trama che è quella di un uomo che non ha elaborato il lutto per la perdita della moglie e che tenta timidamente di recuperare il rapporto con il figlio che quasi non gli parla più.

Per quanto mi riguarda la serie di Rocky termina con il quarto. Quello di Ivan Drago e del "Ti spiezo in due". Anche se quello che preferisco è il terzo, quello con Mr. T.
Gli ultimi due film non dicono nulla. Sono solo un voler riproporre in altra salsa il messaggio che è alla base di Rocky: la vita è come un ring in cui devi lottare per sopravvivere, prendi tanti pugni e se cadi al tappeto devi rialzarti. Rocky III esprime questo concetto nel modo più completo possibile. Perfino il quarto film sembra minestra riscaldata che però viene cucinata meglio con lo scontro USA - URSS e annessi e connessi e quindi lo si digerisce bene.

Spero che non Stallone abbia la decenza di non farne un telefilm sennò mi sentirò in dovere di guardarlo ma non mi piacerà.


martedì 12 luglio 2011

Tortuga e Veracruz di V. Evangelisti

Qualche anno fa mi imbattei in una raccolta di racconti di Valerio Evangelisti intitolata “Metallo urlante”. Non conoscevo Evangelisti e devo dire che a farmi acquistare il libretto era stata la copertina accattivante, la letura del risvolto di copertina e soprattutto la felice sorpresa di avere tra le mani una raccolta di racconti fantascientifici di uno scrittore italiano. Fu una piacevole scoperta, sia dello scrittore che ha vinto il premio Urania nel 1993, sia del personaggio di Nicholas Eymerich protagonista del romanzo premiato e cardine intorno al quale ruotano i racconti della raccolta Metallo urlante.

Mi sono così appassionato al ciclo di Eyemrich, che consta di diversi romanzi, che sebbene non l’abbia ancora letto tutto, sono certo che arriverò in fondo. È che mi lascio la lettura dei romanzi a periodi in cui ho bisogno di sapere che leggerò un romanzo di qualità; oramai considero i romanzi di Eymerich una certezza da vari punti di vista e una garanzia di ottima scrittura, trama avvincente, riferimenti culturali alti e piacere di lettura. Ho letto i primi quattro del ciclo e il prossimo, forse quest’estate, sarà Picatrix. Ma questa è un’altra storia.

Poiché oramai mi fido di Evangelisti ho provato ad affrontare una coppia di romanzi di trattazione completamente differente che mi hanno piacevolmente impressionato. Tortuga e Veracruz sono infatti due romanzi di avventura, dalla trama complessa e coinvolgente, ambientati nel mondo della filibusta, la pirateria seicentesca del Nuovo Mondo.

I due racconti sono indipendenti tra loro anche se Veracruz, che è di successiva pubblicazione rispetto a Tortuga è una sorta di prequel, per cui chi li legge entrambi, in qualsiasi ordine si voglia coglierà naturalmente più sfumature di chi ne legge solo uno.

Sicuramente il punto di vista di Evangelisti sui pirati dista molto da chi ha ideato Pirati dei Caraibi. Qui i pirati sono veramente cattivi e la ciurma fa veramente paura. La vita dei pirati era davvero dura e non ci sono Jack Sparrow a farci ridere.

Entrambi i romanzi sono stati scritti grazie ad un’accurata ricostruzione storica della quale Evangelisti, almeno nell’edizione Mondadori di Veracruz, espone una bibliografia di testi storici e biografici. E’ quindi evidente l’attento lavoro di ricerca e documentazione che si è tradotto soprattutto in Tortuga nell’utilizzo di svariati termini marinari con il fine, probabilmente, di immergere il più possibile il lettore nella ricostruzione degli ambienti e delle vicende narrate.

L’uso del linguaggio marinaresco ha quindi questa finalità, creare una cornice il più veritiera possibile entro cui narrare le vicende. Il problema sta nel fatto che non tutti sono avvezzi a questo linguaggio. Da qui le tre possibili soluzioni:

1) Soluzione “chi se ne frega”: si procede nella lettura senza interrompere il flusso della narrazione: difficile da realizzare perché dopo un po’ si rischia di perdere il filo del discorso, a meno che non si tiri ad indovinare quali siano gli oggetti descritti;

2) Soluzione ossessivo/compulsiva: ci si munisce di vocabolario e si compulsa le pagine del suddetto ogni volta si trova un termine che non si comprende: è possibile se ci si siede a leggere il libro alla scrivania dello studio, non se lo si legge a letto come da un po’ di tempo a questa parte capita a me;

3) Soluzione napval: si scarica per pochi euri l’applicazione “Dizionario” per il proprio IPOD Touch e si usa quello anche a letto.

Consiglio vivamente la terza.

Ma anche a tutti quanti sceglieranno le altre due:

buona lettura.

lunedì 11 luglio 2011

Alla fine di un giorno noioso - Giorgio Pellegrini

È un bene per la narrativa italiana che esista Giorgio Pellegrini, il protagonista dei due romanzi di Massimo Carlotto “Arrivederci Amore Ciao” e “Alla fine di un giorno noioso”.

È un bene perché personaggi così servono a sprovincializzare una narrativa come la nostra, troppo legata a personaggi locali e localistici, con le loro parlate dialettali, con la loro cultura del posto in cui sono nati e in cui moriranno, e con tutte le loro piccole cose di pessimo gusto. È giusto che ogni tanto saltino fuori dei personaggi di ampio respiro che almeno facciano sperare che la nostra narrativa possa essere diffusa e apprezzata anche oltre confine magari inserendosi in un contesto internazionale che la liberi da argomenti di campanile di cui non frega niente a nessuno.

Giorgio Pellegrini è un grande cattivo. Giorgio Pellegrini è cattivo dentro, è cinico con chi gli sta vicino, crudele con le donne che frequenta e che subiscono il suo fascino, è possessivo e paranoico. Ma la sua cattiveria è il risultato di un’evoluzione psicologica compiuta nell’arco di un periodo che lo trasforma da disilluso guerrigliero a rapinatore ricattato, fino a divenire un piccolo ristoratore di provincia, unico ed indiscusso imperatore di quel minuscolo impero che è “La Nena”, il suo ristorante.

Giorgio Pellegrini è rancoroso verso il mondo che lo circonda perchè l’ha costretto ad incattivirsi e a tirare fuori le unghie per sopravvivere. Certamente egli gode della violenza che opera sul prossimo, a cui però si sente costretto dalle circostanze (pia illusione di chi trova giustificazioni non accettabili moralmente), e questo fa di lui un sadico, ma tale tratto del carattere che doveva essere latente negli anni giovanili, di fricchettone borghese di sinistra, è al culmine dell’evoluzione psicologica un elemento fondante della sua personalità.

Il percorso di vita di Pellegrini lo rende incapace di provare alcun sentimento benevolo verso il prossimo. L’unico amore che prova è per la sua creazione, La Nena che ama più di se stesso. Ed infatti ciò che lo guida per tutti e due i romanzi non è amore verso sé, ma unicamente spirito di sopravvivenza. Non poteva sperimentare nessun amore verso il prossimo che non fosse una cosa, un oggetto o in questo caso un luogo fisico.

I due romanzi rappresentano due aspetti diversi della vita di Giorgio. Il primo è la nascita del personaggio, cioè il come e perché è diventato Pellegrini. Il secondo è il suo completamento, cioè dove va a finire Giorgio Pellegrini.

Sono entrambi due romanzi avvincenti. Il primo è un rutilante succedersi di situazioni in cui il protagonista cerca disperatamente di realizzare l’unico anelito che gli è rimasto: la conquista della riabilitazione. Il secondo è la battaglia condotta da Giorgio per la sopravvivenza e la vendetta operata contro chi lo tradisce.

Carlotto scrive bene, e la narrazione procede in modo molto coinvolgente e scorrevole. Il punto di vista è quello del protagonista, anche narratore degli eventi, per cui si leggono i suoi pensieri, i suoi dubbi e i suoi sospetti. Ma Carlotto è bravo nel descrivere una realtà, la provincia del nord-est, semplicemente accennandola attraverso i personaggi che prendono parte agli avvenimenti. Non si dilunga in complesse analisi o nel produrre giudizi di sorta. Semplicemente rappresenta una realtà , terribilmente nera e ci fa sguazzare il suo protagonista lasciandogli campo aperto per vedere come va a finire. Diciamo che sono due romanzi che si leggono in breve tempo, perché si è molto coinvolti nella narrazione. Ovviamente quello che si legge, soprattutto nel caso di “Arrivederci amore ciao”, lascia dentro un senso di malessere perché ci porta a pensare che la realtà descritta, fatta di corruzione, violenza, sopraffazione e cinismo sia esattamente la nostra realtà.

Leggere questi due romanzi di Carlotto è come scoperchiare un vaso pieno di vermi e capire che quello che c’è in quel vaso è l’unica realtà possibile.

Non conosco gli altri scritti di Carlotto per cui non so come siano gli altri personaggi da lui creati, come ad esempio l’Alligatore. L’impressione che ho avuto leggendo questi due romanzi è che Giorgio Pellegrini sia una sorta di maschera cattiva da indossare per dare spazio ad emozioni distruttive profonde.

Perché Pellegrini si rivale su tutto e tutti. Se lo attacchi ti distrugge, se lo ami ti tracina in un buco nero di dissoluzione che ti annienta.

L’unica salvezza possibile è stare alla lontana da Giorgio Pellegrini.

domenica 10 luglio 2011

Indolenza

Mi accorgo solo ora di aver trascorso l'intero mese di giugno senza scrivere nulla su questo blog!

Aiuto, sono indolente...

Lo ammetto l'indolenza è il mio peggior difetto.

Si riprende comunque. E una mia idea perversa è quella di portarmi il pc con annessa chiavetta in ferie così mi punisco imponendomi di scrivere ogni giorno o quasi.
Ma questa idea me la do 10 a 1... sicchè se volete scommetere...

The Snatch - di Guy Ritchie

Ad orario quasi impossibile mi rividedo “The Snatch”, acquistasto in dvd a pochi euri al solito autogrill.

Che a Guy Ritchie piaccano i sobborghi di Londra e il sottobosco della criminalità dis-organizzata è oramai confermato da almeno tre film: Lock & Stock, questo The Snatch e il recente Sherloch Holmes. In quest’ultimo deve rappresentare l’altra parte della barricata polizia e company, ma se ci fate caso la Londra nera traspare da molte situazioni della trama.

Sono convinto che The Snatch sia un film migliore rispetto a Loch & Stock, per il cast stellare (tra cui brilla un divertentissimo Brad Pitt) per la trama complessa e per la caratterizzazione dei personaggi.

La regia mi sembra buona anche se all’inizio Ritchie si lancia in carrellate e cambi di piano al limite dello sperimentalismo (basta vedere la sequenza della rapina ad inizio film) che danno una senzazione abbastanza sgradevole di “non riuscire più a capirci un’acca”.

In fondo The Snatch non ha nessuna pretesa se non quella di divertire e basta. Non siamo ai livelli di “This is England” o “Football Factory”, non c’è nessun tentativo di mostrare la società inglese – londinese e farne una qualche disamina intellettualoide del perché e del percome siamo arrivati a questi tempi disgraziati; si tratta unicamente di divertimento. Si delineano dei caratteri abbastanza macchiettistici e stereotipati, si prende un buon MgGuffin ( per sapere che cos’è si clicchi qui) e si vede dove si va a finire. Tutto qui.

domenica 15 maggio 2011

Il mondo deve sapere di M. Murgia

Ho letto il libro di esordio di Michela Murgia: il mondo deve sapere. E' la trasposizione in un testo cartaceo di quanto scriveva in un blog a proposito della sua esperienza presso una concessionaria Kirby.

Già il titolo colpisce: il mondo deve sapere. Sapere cosa? Il grado di vessazione, ingiustizia e il clima di concorrenza spietata a cui sono soggetti quei lavoratori del call center costretti a quattro ore giornaliere di telefonate ininterrrotte a poche centinaia di euro al mese senza più quei diritti acquisiti dopo anni di lotte sindacali.

"Il mondo deve sapere" è un titolo che trasuda rabbia. E la stessa autrice nella post-fazione presente alla fine del libro nell'edizione Ibs, richiama questa rabbia. Perchè quale altra emozione può provocare un trattamento simile?

E' un testo che colpisce, agile e breve ma la scrittura è leggera e scorrevole e il tono quasi scherzoso per cui può trarre in inganno. Non è un testo comico è altresì terribilmente tragico.

Murgia dice che il mondo deve sapere cosa succede là dentro. Mi chiedo: e se il mondo non volesse saperlo? Perchè questa è la mia impressione che in realtà non si vuole conoscere il problema lavorativo che la generazione dell'autrice sta subendo e non lo si vuole affrontare tanto è vero che ci si nasconde dietro frasi fatte ("oggi bisogna essere flessibili", "il mondo è cambiato" ) e giudizi di valore sulla pessima gioventù nazionale ("sono bamboccioni", "non vogliono crescere", "sono mammoni", e via dicendo).

I contratti a progetto andrebbero aboliti o quantomeno dovrebbe esserci un controllo reale sulla veridicità del contratto. C'è o non c'è un progetto dietro ad un contratto similel? Chiamare al telefono delle casalinghe per vendere un aspirapolvere è un progetto? Di che genere?
La triste verità che genera l'intollerabile ingiustizia che molti giovani (e aihmè anche non più giovani stanno vivendo) è che i contratti a progetto sono solo un modo disonesto e furbetto per un datore di lavoro per pagare meno contributi ad un lavoratore, per negargli diritti essenziali e irrinunciabili ( maternità, ferie, straordinari pagati) e per nascondere dietro un paravento di carta un contratto da dipendente a tutti gli effetti (ma di serie "b").

L'altro aspetto ripugnante di questa situazione è che non si fa niente perchè questo stato di cose fa comodo agli imprenditori che se ne approfittano impuniti.

E visto che ci siamo...che vadano aff..c..o anche tutti quelli che propongono stage.

Fine

mercoledì 11 maggio 2011

sono terribilmente pigro

Allora.
Poichè sono l'uomo più pigro del mondo ho lasciato andare un po' questo blog e da qualche tempo non postavo nulla. Poichè ho deciso che non mollo a meno che non succeda qualcosa di grave sono ancora qui a scriverci per la gioia della miriade sconfinata dei miei fans sparsi in tutto il globo terracqueo (ma mi arrivano tantissime lettere anche da Marte e Venere e colgo l'occasione per inviare un caloroso saluto ai miei moltissimi amici extraterrestri).

Un aggiornamento sulle mie letture personali e sui film visti:

- Le avventure di Sherloch Holmes di A.C. Doyle
- L'alieno Mourinho di Sandro Modeo
- Sto leggendo inoltre "Il mondo deve sapere" con cui ha esordito Michela Murgia

Film visti:
- giustizia privata
- the american
- tron legacy

E dopo molto tempo sono tornato al cinema e ho visto: limitless

A questo punto la domanda:
Scriverò qualcosa in proposito?

Risposta:
L'intenzione c'è. Ma alla fine trionfa sempre il:
Boh?

martedì 10 maggio 2011

the american - film

E' una coincidenza ironica che il meno americano dei film in cui recita Clooney si intitoli proprio “The american” (l'americano). Eppure è proprio uno dei film che più si distanziano dai canoni del cinema di Hollywood, tutto inseguimenti spari, e battute fulminanti.

Diciamo che è un bel filmetto, con un ritmo lento, cadenzato, con pochi dialoghi. Si propone come un thriller ma con un'atmosfera crepuscolare che non so se sia stata volutamente ricercata dal regista ma che in qualche modo scardina i canoni de thriller americano.

Negli extra del dvd che ho visto il regista Anton Corbijn dice di essersi ispirato ai western di Sergio Leone e spiega che la struttura narrativa è la stessa di quel modello. La trama è semplice con pochi elementi e un unico colpo di scena e gli stessi personaggi coinvolti non sono molti.

La storia è tratta dal romanzo dello scrittore inglese Martin Booth anche se il soggetto sembra essere ispirato più dall'immediatezza di un racconto che dalla lunghezza di una storia lunga.

Clooney stupisce nel senso che recita con impegno calandosi nella parte e tentando di parlare pure l'italiano (vedasi il film in lingua originale per apprezzare l'accento marcatamente yankee del nostro). E' un po' strano vederlo in un ruolo molto diverso da Ocean's Eleven o Out of sight.

Il resto del cast fa la sua parte senza toppare. Bonacelli recita un prete credibile a cui avrei dato anche più spazio per dare maggiore sostanza alla storia. Timi ha poco spazio e quindi esprime quello che può: il suo personaggio dice troppe poche battute per avere un giudizio pieno. Violante Placido è ottima sopratutto quando recita senza veli. Da notare infine la scena hot tra la Placido e Clooney.

giovedì 21 aprile 2011

Wall Street 2 - il seguito? non ce n'era bisogno

Perchè fanno certe operazioni cinematografiche? Immagino i manager degli studios che seduti ad enormi tavoli di mogano in ampie sale con moquette verdi e pareti gialle si lambiccano il cervello in lunghe sessioni di brainstorming nel disperato tentativo di tirare fuori qualche idea remunerativa. Ad un certo punto, in un momento di stasi intellettuale, uno di loro se ne esce con qualche battuta di un vecchio film. Tutti ridono, ma poi qualcuno ha un'illuminazione: perchè non fare il seguito di quel vecchio film che ha avuto tanto successo? Ecco fatto. Il progetto c'è; si butta giù qualche idea per rendere la storia attuale e si può incominciare.

Questo film rientra perfettamente nel filone: è stata una pellicola di successo degli anni '80, che cosa sarà successo dopo ai personaggi? Adesso come si comporteranno? E io rispondo: ma a voi che ve ne frega?

Questo film segue la stessa scia di “eccezionale veramente” e “l'allenatore nel pallone”. Film di successo che diventano ciofeche se rigirati oggi ( mi aspetto un remake di ritorno al futuro così se tanto dobbiamo sputtanare i nosti miti cinematografici allora facciamolo bene...).

Ma perchè il primo film funziona e il seguito no? A volte l'idea è stanca, già vista; altre volte il problema risiede nel tentativo di riattualizzare un'atmosfera che non è più possibile ricreare. Nel caso di Wall street succede questo. L'atmosfera dello yuppismo anni '80 è morta e sepolta. Adesso quel mondo non può rinascere se non in forme completamente diverse. É un periodo della storia ormai raffreddato e trasmesso ai posteri. Immagino che l'idea dei produttori sia stata quella di criticare duramente il mondo economico finanziario odierno che non ha cessato di essere ammalato della febbre del guadagno facile. Ma oggi siamo tutti meno ingenui e forse più cattivi. Gordon gekko non può esistere in quanto tale. E forse da questo spunto i produttori hanno agito per approfondire il personaggio e cercare di dargli uno spessore psicologico che nel primo film non aveva. É stato un errore, perchè quel personaggio era completo così com'era all'epoca e aveva detto già allora tutto ciò che aveva da dire.

C''è però un altro errore che pernso sia stato decisivo nel mandare in vacca la riesumazione di Gordon Gekko e si tratta di un errore tecnico – narrativo. Vediamo le differenze tra i due film per capire meglio cosa intendo dire.

Nel primo Wall Street c'è una trama principale e due sottotrame parallele: in quella principale c'è un giovane e rampante broker attratto dal guadagno facile e dalla voglia di arricchirsi che riesce a catturare l'attenzione di uno speculatore finanziario senza scrupoli. Quest'ultimo prende in simpatia il broker e lo introduce nel suo mondo, con le conseguenze che si vedono nel film. Le altre tracce sono: il rapporto del rampante broker con la bella di turno che lo considera solo quando lui diventa ricco e lo molla un secondo dopo la sua caduta; il rapporto con il padre da cui il protagonista vorrebbe finalmente avere quella fiducia nelle sue capacità che sente di non aver mai avuto.

Nel Secondo Wall Street si cerca di seguire lo stesso schema, una storia principale e altre che fanno da contorno. Ma qui sorge il problema; qual è la storia principale? Se nel primo film la si riconosce abbastanza bene anche perchè le atre tracce sono evidentemente una conseguenza della prima, in questo film non si capisce bene quale considerare la più importante. Vi è un filo conduttore che è il rilascio di Gordon Gekko ma è solo questo. In questo film ci sono quindi più storie: il rilascio e il reintegro nella società di Gekko; il rapporto d'amore tra il protagonista e la figlia di Gekko; la voglia di rivincita del protagonista sul finanziere cattivo; il rapporto tra Gekko e la figlia. Tutte queste trame possono essere considerate indipendenti l'una dall'altra. Risultato: il film non funziona perchè troppo caotico senza uno scheletro definito.

Penso che il problema del seguito di Wall Street sia principalmente questo; si è commesso l'errore di non scegliere una costruzione precisa degli eventi narrati e pertanto si sarebbe dovuto costruire una trama principale da cui far derivare tutte le conseguenti. Non è stato fatto e il film ne risente. La narrazione scema e sembra interrotta, non si capisce perchè gli eventi si dovrebbero evolvere come è narrato. Pertanto si ha la sensazione di una forzatura della trama in più passaggi.

Peccato. Volevamo un tributo diverso per Gekko. Anche se ribadisco, sarebbe stato meglio lasciarlo dove l'avevamo lasciato negli anni ottanta.





mercoledì 23 marzo 2011

the football factory

Anni fa lessi “Fedeli alla tribù” di John King, il libro da cui è stato tratto questo film. Allora mi colpì soprattutto il linguaggio crudo, esplicito e violento con cui era scritto il romanzo. Il racconto era la narrazione, fatta in prima persona, delle vicende di un hooligan inglese che si barcamenava tra una scazzottata e l’altra fino all’epilogo della storia, che ora sinceramente non ricordo nemmeno.

La scelta di un registro linguistico così truce era stata fatta probabilmente per dare un tocco di estremo realismo al racconto ed in effetti se si voleva trasmettere il punto di vista del protagonista, narratore e attore delle vicende raccontate, necessariamente si doveva adottare qualcosa di simile.

Il romanzo aveva un suo perché. Non ricordo una particolare disamina delle problematiche sociologiche della realtà inglese degli anni novanta, epoca in cui era ambientato, né un approfondimento psicologico della natura umana, ma comunque rappresentava uno spaccato del particolare tipo di vita degli ultras britannici. Pertanto il romanzo poteva avere un suo valore.

Il film no. O meglio non questo film che è tratto dal romanzo ma non ne replica efficacemente il senso. Evitando equivoci, dico subito che il film si lascia guardare, nel senso che in fondo ci arrivate pure; solamente non è un’opera che si può iscrivere nella tradizione dei film che rappresentano la violenza o simili. Non è un film che ricorderete (non è arancia meccanica per intenderci né i guerrieri della notte). Alla fine dei conti questo film non rimane.

Il protagonista è l’io narrante. È un ragazzo del proletariato inglese, di una famiglia di sani principi testimoniati dal nonno ex combattente nella seconda guerra mondiale e sempre prodigo di buoni consigli. Ha un lavoro normale che non è particolamente gratificante e un unico passatempo: far parte del gruppo hooligan del Chelsea e passare le domeniche a menarsi con i tifosi avversari.

È tutto qui.

Nel corso del film viene esplicitata una domanda che il protagonista rivolge a se stesso: Ne valeva la pena? Cioè, ne vale la pena passare le domeniche a rischiare di farmi ammazzare per un niente? La risposta è nella scena finale. Ma poi il film non dice altro. I personaggi sono ben caratterizzati ma inutili. Il nonno eroe di guerra dovrebbe rappresentare l’alternativa della vita normale, ma è un sottotesto poco sviluppato e in cui gli sceneggiatori non sembrano crederci tanto. Non si spiega effettivamente perché il protagonista dovrebbe menare il prossimo e rischiare così, né si racconta efficacemente la storia dei comprimari di cui si dice solamente che provendo dalle zone disagiate della città hanno dovuto ricorrere alla violenza per sopravvivere. Poi basta. Lo studio sociologico finisce qui. E va bene che non ne bisogna fare un dramma e sinceramente film come i guerrieri della notte anche senza particolari attenzioni ai perché e ai percome delle disgrazie della nostra società funzionano benissimo. Solamente che questo è un film vuoto da cui non se ne ricava nulla, se non forse un po’ di spasso (alquanto modesto tuttavia).

Insomma è un filmetto per passare la serata in mancanza di altro destinato unicamente ai veri appassoinati di film sul calcio (e sulla violenza, anche se di calcio praticamente non se vede niente.