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sabato 22 febbraio 2020

The tournament... per antonomasia...

The tournament è un film inglese straight to video del 2009, diretto da Scott Mann e arrivato da noi nel 2015.

La trama ruota intorno ad un torneo segreto di ammazzamenti organizzato da un cattivone fanatico per sollazzare un gruppo di ricconi scommettitori corrotti e figli di pu. che seguono le azioni da uno schermo in una località segreta.

I partecipati al torneo sono tutti killer professionisti che gareggiano nell'uccidersi a vicenda fino a che l'ultimo in vita sarà il vincitore e sarà premiato con un bel gruzzolo di quattrini. A tutti è stato impiantato un rilevatore e se non completano il torneo entro lo scadere di 24 ore, succederà, ma guarda un po', che il rilevatore si trasformerà in una bomba.

Il cast di attori non è male. Il cattivone è Liam Cunningham che interpretava Sir Davos ne Il Trono di Spade; l'eroina è un'atletica Kelly Hu; un cooprotagonista/antagonista è il nerboruto e immortale Ving Rhames; ma sopratutto spicca su tutti un gustosissimo Robert Carlyle nei panni di un prete cazzone e ubriacone, che vale da solo la visione del film.

La messa in scena è un po' cheap, come si dice oggi parlando figo, un po' da film televisivo. Però bisogna ammettere, e questo secondo me è un gran pregio del film, che non ci si lesina in spargimenti di sangue, esplosioni di corpi ben fatte e dita mozzate. Insomma una soddisfacente razione di gore che ne impedirà la trasmissione in prima serata sulla tv pubblica fino alla fine dei tempi.

Diciamo anche che la storia è improbabile e non è nemmeno tanto nuova. A me viene subito in mente Series 7: the Contenders, un filmino del 2001 di Daniel Minahan, a basso costo e girato per lo più in piano sequenza. In Series 7 i contendenti erano sfigati qualunque estratti a sorte e costretti a partecipare ad un reality televisivo in cui dovevano accopparsi a vicenda, il tutto seguito ossessivamente dalle telecamere televisive. Lì era evidente la critica alla spettacolarizzazione che i media fanno della vita delle persone comuni, in The tournament tutto questo non c'è. Qui si è interessati solamente a narrare una storia poco credibile e un po' paranoica e a mostrare una buona dose di violenza. Insomma, bisogna sospendere il giudizio e godersi lo spettacolo.

Nel complesso il film è anche accettabile, all'inizio è meno avvincente ma sul finale migliora. Comunque niente di che. Insomma se non c'è nient'altro si può vedere con una buona dose di pop corn.

Alla prossima. 


martedì 18 febbraio 2020

Mi dispiace gente, ma gli scimmioni siamo noi.

"La scimmia nuda - studio zoologico sull'animale uomo" è un celebre libro di Desmond Morris del lontano 1967. E' un classico, quindi è un testo che nonostante gli anni ha sempre qualcosa da dirci. Credo infatti che sia un testo imprescindibile per comprendere l'essere umano o quanto meno per spogliarsi di quella arroganza nei confronti della vita che ci fa credere iniquamente di essere benedetti da chissà quale soffio vitale di matrice divina.

Era da un po' che mi ero ripromesso di leggerlo ma avevo sempre procrastinato. Ma poiché ho una certa sensibilità nei confronti dei messaggi che l'Universo mi manda, quando in Shot Caller si cita inopinatamente "L'animale uomo" dello stesso autore (o l'animale umano, come leggo in alcune traduzioni, peraltro introvabile e fuori catalogo e non capisco perché), ho pensato: "Ecco, è giunto il momento".

Mai contraddire l'Essere o l'Universo, a dir si voglia, ci si potrebbe ritrovare in guai seri. Quindi l'ho recuperato al volo dalla biblioteca (in epub) e via.

Diciamo che Morris ha il pregio di rendere esplicito qualcosa di negato, di rigettato nelle profondità dell'inconscio collettivo, e cioè che in fondo noi tutti, nessuno escluso sia chiaro, non siamo altro che dei primati (animali insomma, e quindi scimmie senza pelo, cioè "nude"). Lo fa in modo deliberatamente discorsivo, senza appesantire il testo con citazioni e note bibliografiche che riserva solo all'appendice. L'intento è ovviamente la divulgazione.

Lo scopo del testo è quello di operare un'analisi della specie umana nel modo più disincantato possibile, scrostando le osservazioni da schemi e chiavi di lettura umanistiche o antropocentriche, semplicemente adottando il punto di vista di un biologo che si pone di fronte all'uomo come oggetto di studio al pari di qualsiasi altra specie vivente. 

Tutto questo mi ricorda un esercizio che ci era stato assegnato in un corso di scrittura che ho frequentato ormai tre anni fa. Il docente l'aveva chiamato "L'esercizio dell'Alieno". Il compito consisteva nel provare a scrivere un testo, descrittivo e non narrativo, adottando un punto di vista completamente scevro da chiavi di lettura precostituite, come se si fosse appunto un alieno appena atterrato sulla terra. Un esercizio divertente e istruttivo; il mio scritto, evidentemente comico, era sulla descrizione di un qualunque Supermercato. Ricordo con piacere che aveva molto divertito gli astanti. 

Ma vabbé...

Insomma, Morris fa più o meno lo stesso, al netto della comicità che non è per nulla ricercata né ottenuta. Quello che esce è una descrizione completa, sia fisica, comportamentale e sociale del genere umano, che ne mette in risalto la natura profondamente biologica. Una natura che difficilmente l'uomo abbandonerà, in quanto parte costituiva immanente del suo essere. 
Ho detto che dovrebbe essere una lettura che ci potrebbe aiutare a spogliarci dell'arroganza di crederci superiori al mondo in cui viviamo, perché effettivamente, anche se Morris cerca di esimersi da qualsiasi giudizio morale, non può non presentare tesi (e forse qui si lascia andare ad interpretazioni non del tutto dimostrabili e quindi a mio avviso sindacabili, ma comunque affascinanti e plausibili) che possano risultare inaccettabili ai più. Basta pensare all'origine della religione, dell'unione matrimoniale o alla necessità di prevenire la sovrappopolazione.

Comunque, mi dispiace gente ma scimmioni siamo e scimmioni resteremo a lungo, nonostante tutte le scoperte o i traguardi scientifico-tecnologici raggiunti.

Almeno finché, e questo lo dico io pensando a qualche episodio di star trek o simili (E NON C'ENTRA UNA CIPPA CON MORRIS), non saremo in grado di evolverci in esseri di pura energia e abbandonare il caduco involucro di carne che chiamiamo corpo. 

Che poi, mi chiedo, come cavolo sarebbe possibile ciò. Mi sembra una grandissima cavolata che ci si possa evolvere in energia cosciente. 

Boh.

La fin.




venerdì 14 febbraio 2020

Joker per chi l'ha visto

Tralascio di descrivere la trama, il film bisogna vederlo. E bisogna in tutti i sensi, perché al netto dei premi ricevuti, è comunque un'opera che spicca nel desolante panorama moderno. 

E' certamente un film difficile. Che deve essere lasciato sedimentare.

Ci vuole coraggio a proporre un'opera come questa e a giostrarsi tra i generi esplorandone i confini e trapassando quei limiti che a prima vista sarebbero impermeabili. Poiché sebbene l'azione si svolga a Gotham, la metropoli fumettistica per antonomasia, qui siamo lontani anni luce dai rassicuranti stilemi del cinema supereroistico alla Iron Man, Vendcatori e simili. 

Diciamo anche che è un film duro, crudo e a tratti disturbante o volutamente disturbante laddove pone in modo diretto interrogativi che inquietano. Possiamo veramente esimerci dalle responsabilità nei confronti di una società che sta andando in malora?

Due mosse vincenti: la prima è quella di usare un genere, e un'ambientazione di origine fumettistica quale quella del mondo di Batman per fare un film politico, di violenta critica sociale e di analisi psicologica, trascendendo quindi la matrice fumettistica per arrivare a qualcos'altro; la seconda è quella di usare volutamente un personaggio dropout che tutti quanti pretendiamo di conoscere e che ci aspettiamo da un momento all'altro che scivoli nell'abisso della follia omicida. Una maschera che mette a nudo i peccati di tutti. 

Non bisogna farsi però sviare dall'escamotage narrativo. Su internet le teorie si sprecano e basta fare una googlata per capire che anche successive dichiarazioni del regista (un Todd Philips che qui si allontana decisamente dal genere comico - commedia con il quale ha riscosso successo presso il grande pubblico), avvallerebbero i dubbi sull'identità del personaggio: si tratta del vero Joker, di una sua reinterpretazione o addirittura di un personaggio completamente diverso, magari un disadattato che vive nell'universo narrativo di Batman ma che nulla ha a che spartire con il Joker che conosciamo? E ancora con le teorie internettiane: si tratta di una narrazione di fatti realmente accaduti, all'interno della finzione scenica, o di una allucinazione perversa (ricordate il film omonimo  del 1990 di Adrian Lyne con Tim Robbins)?

Ma non sarebbe l'unica citazione. E' un film pieno di simboli e di citazioni che hanno un effetto subliminale: l'immondizia che sommerge una Gotham City alla vigilia di elezioni; la lunga scalinata che il protagonista percorre in un senso e nell'altro con un mood completamente diverso (guarda caso a spalle curve sotto il peso di una vita misera, in salita, e ballando verso la libertà da ogni vincolo, in discesa); il personaggio di De Niro che è passato dall'altra parte dai tempi di "Re per una Notte" e lo fa pesare sul povero Phoenix; i ricchi altoborghesi che a una serata di gala si godono con grasse risate la visione de il classico Tempi Moderni di Chaplin, simbolo per eccellenza dello sfruttamento dell'uomo da parte della macchina (leggasi: profitto industriale - capitalistico). E via a seguire.

Ottima messa in scena. L'ambientazione non è la Gotham notturna a cui siamo abituati da Tim Burton in poi, ma una diurna clonazione della Grande Mela, come a dire: se l'uomo pipistrello vive di notte, dove si opera un repulisti del marciume della società, di giorno che succede? Perché è di giorno che nasce e prospera quel male che ci sta molto più vicino di quanto ci possa sembrare.

Recitazione da urlo di Phoenix, sul quale regge l'intera operazione per la quale si costringe a perdere una ventina di kg per entrare in un personaggio sofferente, allampanato ai limiti della sopravvivenza, e fa l'inverso di De Niro, guarda caso, che in Toro scatenato era ingrassato per lo stesso motivo: una coincidenza o un'altra citazione?

Insomma un'opera cinematografica a tutto tondo, degna dell'aggettivo "artistica", e sicuramente necessaria in tempi come questi di sospensione del giudizio morale o di annebbiamento dei sensi, se preferite. In cui l'immoralità delle disparità sociali ha anestetizzato una società asfittica e sull'orlo dell'esplosione. 

Le Maschere di Joker come quelle di V per Vendetta. Solo che lì, era una coscienza civile che si ribellava alla morsa disumana della dittatura, qui è la furia animalesca e regressiva accesa dalla frustrazione e dalla fame.

E' una follia vendicativa e brutale. Ma è moralmente giusta? Bisognerebbe rispondere "no", con decisione, e condannare la violenza sempre implicitamente immorale.

Ma allora, così come Batman usa la violenza del vendicatore mascherato, che condanna i criminali senza processo, che si arroga ila diritto di ergersi a giudice, giuria e boia, in spregio delle normali regole civili, questo Joker opera specularmente e usa la violenza per appropriarsi di una giustizia che gli è stata sempre negata.

Ed è qui che emerge l'inquietante interrogativo: chi dei due in realtà opera nel giusto?

The end

giovedì 13 febbraio 2020

Insospettabili sospetti

E' un film del 2017 con un cast di veterani del mondo di cellulosa quali il trio Caine-Freeman-Arkin, coadiuvato da comprimari di tutto rispetto, come C. Lloyd (l'indimenticato Doc di Ritorno al Futuro) e un Matt Dillon (abbastanza intercambiabile con chiunque altro). 

La storia non è nuova. Anche perché il film è un remake di una pellicola del '73 che qui viene molto rimaneggiata. In pratica tre arzilli vecchietti con alle spalle anni di esperienza su come gira il mondo, si trovano chi per un motivo, chi per un altro, ad avere la necessità di molti soldi in tempi brevi. Quale viatico migliore per una agognata ricchezza se non quello dell'atto criminale più simbolico e politico che esista, cioè la classica rapina in banca? Ed infatti i tre impavidi, da tranquilli pensionati si improvviseranno scaltri rapinatori, con gli esiti che tutti possiamo immaginare. 

Questo film lo derubricherei sotto la categoria "sospensione di giudizio". Si tratta infatti di uno di quegli esempi di filmetti senza pretese che partono da premesse impossibili e si sviluppano in modo alttrettanto improbabile; insomma quelle americanate a cui solo gli americani credono e che noi possiamo vedere solo se ci avviciniamo ad essi senza riflettere (per quanto mi riguarda l'ho visto alle due di una notte insonne, sulla pay tv, sperando quasi di addormentarmi e senza riuscirci). 

Il film ha un ritmo brioso, ed è sostenuto, o almeno così si vorrebbe tutto dai battibecchi e dalle battute taglienti dei protagonisti. Ma anche qui si poteva fare di più, calcando un po' di più la mano. Alcuni comprimari sono azzeccati, altri sono macchiette (vedi il direttore di banca) sicché la commedia scivola facilmente in farsa. 

Vi è lieve accenno social - politico quando si vogliono criticare le banche e il sistema pensionistico americano, ma è tutto molto rassicurante e inoffensivo; l'inopinata povertà del trio è dovuta alla cessione della ditta per la quale hanno lavorato per decenni, con tanti saluti al Fondo pensione. 
Si tratta di un espediente narrativo che dà l'avvio alla vicenda e nulla di più. tanto che secondo me a stessa idea Ken Loach l'avrebbe sviluppata in ben altro modo.  Ma questi sono gli States...

Insomma, io gli darei anche un 6, a patto che lo si veda solamente se non si ha voglia di fare nulla di diverso, piove e si abbia qualcosa di buono da mangiare stravaccati sul divano. 

Nient'altro.

sabato 8 febbraio 2020

Il nuovo Dylan Dog: sono perplesso.

Ho comprato il numero 401 appena uscito. 

L'intenzione era quella di leggerlo subito e tutto d'un fiato. Ma poi l'ho letto solo ieri.

L'ho tenuto lì sul comodino, in attesa per qualche giorno. Non era ansia, non era paura o per citare Gwendaline "tensione" ("Questa tensione è insopportabile. Speriamo che duri!" - una delle mie frasi preferite di Oscar Wilde). Avevo altre incombenze, altre letture da finire. 
Sto leggendo un ebook preso in prestito dalla biblioteca. E' "La scimmia nuda" di Desmond Morris. 
Questo servizio del sistema bibliotecario della mia provincia è comodissimo. Si possono scaricare max due ebook al mese per tredici giorni l'uno. Finito il tempo concesso alla lettura, il file scompare. Un po' come l'autodistruzione di Mission Impossibile.

Ma torniamo a "L'alba nera" il Dylan n. 401. 
Un avviso sulla copertina (non so come si chiama tecnicamente il messaggio gridato sulla copertina che ha toni sempre entusiastici...) recita: "Un nuovo inizio!"

E' vero. E' proprio così. 

E' un reboot in piena regola, se vogliamo. Ma in cui si cerca di mantenere una tradizione, un'ancora o un contatto con il passato attraverso le citazioni del primo albo dylaniato, L'alba dei morti viventi. 

Quasi la stessa storia, quasi le stesse scene, e questo l'ho apprezzato tanto, come se fosse un continuo gioco di citazioni e rimandi al passato; una reincarnazione del Dylan di un tempo. Una vita che è già stata vissuta. O un eterno rincorrere universi paralleli. Tanto per dire in questo universo Bloch non è ancora andato in pensione, ma ha finalmente fatto carriera diventando Soprintendente. 

Qualcosa del genere era già stato fatto in casa Marvel, se non sbaglio con l'uomo ragno in Back in Black (citazionissima degli ACDC). 

Ok, mi sta bene. 

Non mi stanno bene altre scelte. Niente Groucho, sostituito da un Gnaghi a cui non si deve cercare la battuta a tutti i costi (ormai era troppo difficile?)

Non mi stanno bene né Carpenter né Rania. Non mi piacciono e non mi sono sembrati granché come invenzione già nel corso precedente. Troppo piatti, troppo telefonati, troppo concessi ad un'idea di fumetto politically correct (ma l'avete mai ancora vista una poliziotta con il velo? ok, nessun problema, a me non frega nulla della religione, ma almeno siamo un po' realisti).

E poi proprio in questo numero ho trovato la loro presenza eccessiva. Non sembrano spalle, ma cooprotagonisti. E no, questo non lo posso accettare. 

Potrei andare avanti. Dylan sembra un finto anti-eroe. Sembra un violento, uno che usa la forza. Mi si può dire che la violenza c'è sempre stata in questa testata (pardon, per la cacofonia). Ma, rispondo, non è quello il punto. Un conto è la violenza, un conto l'orrore, un conto è il fatto che un personaggio che rifugge da questa ci si trovi dentro a tutti i costi e sia obbligato ad usarla. Qui no, qui Dylan sa cosa deve fare e non si pone domande. La violenza la sa usare e temo che quasi se ne compiaccia. 

No, chiamatemi pure passatista, o retrogrado o cos'altro ma sono perplesso. Sì, è vero, ho una naturale tendenza al misoneismo. Non amo le novità, sopratutto quelle radicali. Forse sarà una forma di insicurezza, non lo so. Quello che mi domando è: quando un personaggio della fantasia cessa di essere un prodotto unico e di proprietà di un singolo autore e diventa patrimonio di una cultura, cioè di una collettività? Pensereste mai che Amleto appartenga a Shakespeare e non sia più una maschera. Un feticcio che è patrimonio di tutti? 

No, certo. Ormai Amleto è quello. E' una figura immobile, consegnata non alla storia, va bene, ma alla cultura. E' una maschera. Ma è sempre quella e nessuno se ne lamenta. Non può essere cambiata. E non appartiene a chi ne pubblica le storie. E' come se la casa editrice che pubblica oggi Amleto decidesse di cambiargli i connotati. Non può essere.

E' proprio la scelta radicale del curatore della testata di voler a tutti i costi rinnovare un personaggio con la scusa che i tempi cambiano, che non mi convince.

Mi convince di più l'idea che a cambiare siano i bilanci delle case editrici. Quelli sì che impongono di cambiare.

Ma signori mi dispiace. Non funziona così. Volete cambiare Dylan Dog per i vostri interessi. Non per l'arte o la società. Così fate di peggio di quanto poteste fare: lo uccidete. Perché io credo che un personaggio inventato, a qualunque latitudine, da qualunque forma d'arte provenga, cinema, teatro, letteratura e via dicendo, diventi immortale solo se mantiene i caratteri che l'anno definito.

Hanno cambiato Dylan e così facendo hanno ucciso il nostro Dylan, quello con il quale siamo cresciuti. Ne hanno tirato fuori un altro, un fantoccio o fake, se siete amanti del gergo odierno. 

Non so se l'operazione darà dei frutti, ma se lo farà saranno solo economici non artistici. 

Mi dispiace. Ma è così.




giovedì 6 febbraio 2020

Perché Sanremo è Sanremo.

Ma perché hanno tolto la sigla storica?

Ho sempre amato il "Perché Sanremo è Sanremo". Lo trovo definitivo, senza possibilità di replica. Boh.

Polemiche e polemiche. Ma io quest'anno non le ho ascoltate e ho provato lo stesso a guardarlo. E tutte le volte mi torna in mente un articolo di Tommaso Labranca, non ricordo su quale rivista, in cui diceva, più o meno, che lui ci provava ogni anno ad evitare di guardare Sanremo ma che poi non ci  riusciva come se si trovasse di fronte ad un cobra incantatore.

Tommaso Labranca è purtroppo scomparso nel 2016.

...

Questo post è a metà.

L’ho iniziato diverse ore fa con l’intento di scrivere qualcosa di interessante su Labranca più che su Sanremo, ma non ne sono in grado probabilmente. Labranca me lo fece conoscere (da lettore) un mio professore di filosofia del liceo che un giorno si presentò in classe con il libretto “Andy Warhol era un coatto” edito da Castelvecchi. Ne rimasi affascinato e andai subito a comprare anche “Estasi del pecoreccio”, per concludere anni dopo l’ipotetica trilogia con “Chaltron Hescon”. Penso che sopratutto i primi due siano letture imprescindibili per chiunque voglia affrontare un minimo di critica letteraria o cinematografica. Al di là del gusto per la battuta, per l’ironia, ci sono delle intuizioni sapidissime.

Ma lasciamo stare. Sarebbe troppo lungo e bisognerebbe scriverne lungamente a parte.

Sanremo lo vedo sempre, ma a sprazzi, mai tutto. Mi piace vedere l’inizio e la fine. Quasi mai le serate nel mezzo. Sopratutto non sopporto quando perdono tempo con ospiti e interviste. Preferisco quando danno più spazio possibile alle canzoni. Gli ultimi due anni hanno fatto così. Quest’anno no.  Troppe pause, interruzioni che non c’azzeccano nulla con la musica.

Non possono iniziare con i big alle dieci. È devastante.

Comunque Sanremo è imprescindibile ed è giusto che sia così. È giusto l’eccesso, il clamore, il carrozzone e gli annessi e connessi. È un doveroso momento di celebrazione nazional-popolare di cui gli italiani hanno bisogno per rinsaldare l’unione e la condivisione di valori e tradizioni della comunità. 

Sanremo è risorgimentale quanto la nazionale di calcio. 





martedì 4 febbraio 2020

Il tulipano nero

Per noi quarantenni cresciuti con i cartoni giapponesi, il Tulipano nero evoca solamente "La Stella della Senna", l'anime giapponese del 1975, andato in onda in Italia nel 1984 e introdotto da una musica scoppiettante cantata da una giovanissima Cristina D'Avena (...colpi di là, colpi di qua, cosa accadrà? cosa accadrà?...alzi la mano chi non ha cantato il motivetto, nessuno: perché un riflesso condizionato come per il cane di Pavlov) e scritta da Alessandra Valeri Manera, il cui valore musicale, e vi assicuro che sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali mentre lo sto scrivendo, un giorno la storia della musica italiana riconoscerà come inferiore soltanto a quello di Mogol. 

Ebbene, il romanzo di Alexandre Dumas non c'entra una cippa con l'anime giapponese.

La storia è diversa. I protagonisti pure, il luogo e il tempo dell'ambientazione. Insomma è tutta un'altra cosa. 

E' un romanzo del 1850 ma che si fa leggere anche nel 2020 perché Dumas aveva la capacità, o forse la necessità visto che doveva pubblicare sulle riviste, di mantenere viva l'attenzione del lettore, lasciando in sospeso il finale di ciascun capitolo. Era la tecnica dei romanzi di appendice, che pubblicati a puntate, dovevano chiudere l'episodio con un colpo di scena lasciato lì; il lettore doveva abboccare ed essere indotto a comprare il giornale anche il giorno dopo. 

E' un romanzo di avventura e di amore, forse un po' troppo idealizzato e melenso, ottocentesco appunto ma quelli erano i tempi e gli stomaci del 21° secolo se lo devono far digerire a forza se vogliono arrivare fino in fondo. 

A tal proposito, in tempi di MeToo, non vorrei offendere nessuno dicendo che forse questo aspetto è più apprezzabile da un pubblico femminile...absit injuria verbis, non sia mai...

Ma è anche un romanzo che narra di una bieca ingiustizia subita da un uomo pio e di come quest'uomo, Cornelius Van Baerle, il protagonista, la viva non con rassegnazione ma con titanica accettazione. 

Eppure qui e là traspare chiaramente che l'accettazione della pena sia un simulacro di qualcos'altro di più profondo e certamente non puro come potrebbe a prima vista apparire. 

Si tratta a mio avviso di un'ossessione. 

Il tulipano nero, cioè la ricerca spasmodica di un fiore perfetto e puro, inimitabile e superiore (e qui è anche una specie di McGuffin ante litteram, se vogliamo) è per Van Baerle la sola ragione di esistere tanto che le misere cose umane ne sono sacrificate, finanche si tratti della libertà o della vita stessa. 

La medesima ossessione che travolge il villain della storia, Boxtel, il quale è macerato dal presunto successo del rivale e cerca con ogni mezzo di distruggerlo e rubargli il segreto, ma che il destino salomonicamente annienterà. A differenza ovviamente di Van Baerle che invece ne guarirà attraverso l'amore per una donna che guarda caso si chiama Rosa, come un altro fiore, e che qui rappresenta l'assennatezza della Ragione. 

E' quindi solo la Ragione (Rosa) che salva il protagonista dalla follia e lo libera dalla prigione in cui è precipitato o in cui rischia di cadere se rimarrà attaccato alle proprie ossessioni-catene. 

Chissà, magari ci ho preso. Magari no e ci ho visto più di quello che c'era scritto. Non lo so, ma a me il Tulipano nero è piaciuto.

Da leggere. 

Adieu. 



lunedì 3 febbraio 2020

The raid Vs John Wick

Sinceramente non capisco tutta questa esaltazione di John Wick.

Li ho visti tutti e tre e non mi sono sembrati questi gran film. Forse il terzo sembra un po' più interessante, per la trama e per qualche invenzione coreografica, ma per il resto non mi sono piaciuti. La storia è debole; il primo film prende il via da un pretesto che innesca una reazione a catena sproporzionata e che non finisce più; nel secondo alla Gerini si dà pochissimo spazio quando ne meritava molto di più e sarebbe stato bello vedere un villain donna, ruolo che invece è lasciato al buon Scamarcio a cui è chiesto molto meno di quanto possa fare (ma vabbè, la star è il Keanu R. onde per cui guai a rubare la scena); il terzo boh, forse un po' meglio, ma se non si ha visto gli altri non si capisce una sega. Poi vabbè, tralasciamo il fatto che se l'idea della setta di killer, con albergo annesso, poteva anche intrigare, la mandano in vacca esagerando con la rappresentazione di una New York che sembra abitata solo da assassini mercenari. 

Ma se anche la trama è fiacca e serve solo ad introdurre lo spettatore alla sequenza stucchevole di  ammazzamenti, o come si direbbe oggi con una terminologia mutuata dai videogiochi di "kill", sono proprio queste, a mio avviso a deprimere l'esperienza visiva. Insomma, qualcuna è pure spettacolare, non c'è dubbio, ma nel complesso cosa suscitano? Quello che ne risulta è una semplice sequenza di sparatorie asettiche in cui il Wick elimina ogni avversario che gli si para davanti, sfoderando tutta la innaturale postura di un personaggio di Fortnite qualunque. 

Mi è sembrato, a dire il vero, un grande esercizio di stile della serie: "Della storia non frega niente a nessuno e sta bene, allora vi facciamo vedere delle sequenze fighe di ammazzamenti". A me sembra che proprio fighe non siano. Insomma è tutto troppo veloce, e oserei dire pulito, per coinvolgere lo spettatore. Bah.

Ma l'avete visto "The Raid" (2001) di Evans? Ma secondo me siamo su un altro pianeta. La storia è ridotta all'osso, ma è perfettamente tratteggiata, così come lo sono i personaggi. Nel pieno rispetto delle tre unità aristoteliche (azione, tempo e spazio), qui si rimane attaccati ad una sequenza di ammazzamenti (e non "kill" del cazzo), come Dio... pardon... Come Satana comanda. 
Scene marziali fenomenali. Sangue che schizza e sprizza come dannatemente e cinematograficamente deve essere. Ossa che scricchiolano sotto i devastanti colpi di silat, l'arte marziale del sud est asiatico che qui fa da padrona, e urla disumane che precedono le espressioni attonite di quelli che subiscono i colpi mortali. Insomma, qui c'è carne e sangue, il vero pulp. 

Là abbiamo un anestetico blando, un medicinale da banco forte come un placebo, ad uso e consumo di mogli isteriche che usano il mal di testa come scusa per non darla al marito il venerdì sera, qui un'iniezione di un litro di adrenalina sparata dritta nelle valvole mitraliche che manco Vincent Vega con Mia Wallace.

The Raid tutta la vita. Al diavolo John "fighetto" Wick.

The end

sabato 1 febbraio 2020

ERANO PASSSATE DA UN PO' LE DUE, STANOTTE...

Erano passate da un po' le due, stanotte, e stavo pensando che forse questo blog dovrebbe fare un seppuku. Un po' come hanno fatto i WU Ming con il loro precedente progetto Luther Blissett. Diciamo che ne ero quasi convinto. Fino a stamattina avevo maturato l'idea di chiudere il blog per riaprirne un altro con uno stile e una forma un po' diversa. Ma nel corso della giornata sono ritornato sui miei passi e verso sera ho deciso di lasciare in vita Napval. 
Sicuramente l'esigenza è quella di operare un rinnovamento, un nuovo inizio che mi porti ad essere più costante. 
Ora, il fatto è che non ho abbandonato la scrittura (cazzo, non sia mai!). E' solo che ho seguito i consigli della Natalie Goldman e mi sono messo a vergare a mano su quadernetti colorati e a buon mercato. Quindi se c'è stato un lungo periodo di sospensione, prendetevela con lei e non con me. 
Insomma, all'inizio ero anche partito con un certo entusiasmo, come tutte le vole d'altra parte e come succede a tutti. Poi mi sono un po' afflosciato a causa di una certa scomodità; devo scrivere su un Eee PC dell'Asus con Ubuntu preinstallato (per cui colgo l'occasione di assicurarvi che se volete fare qualcosa di buono per il blog potreste ad esempio regalarmi un buon Macbook da un millino, che mi sembra così buono per scrivere...Ok, non abbiatene ci ho provato...) Poi è subentrato un altro pensiero che sa più da paranoia. Ho pensato che scrivendo sul blog, cioè sulla rete, lascio in modo pressoché indissolubile una testimonianza della mia esistenza. Sicuramente non sarà trasmessa ai posteri e mi sta benissimo, è solo che non ho molta voglia di lasciare qualcosa in rete. 
Tutto qui. 
Si tratta di un evidente confitto tra un voler farmi i cavoli miei e il desiderio di apparire. E per il percorso di maturazione che mi sento di adempiere in questi ultimi mesi, orbene, mi sembra di propendere più per la prima opzione. Ma decisamente. 
Comunque, visto che l'esigenza di cazzeggiare ha una sua valenza e una forza che spesso travalica tutto il resto, diciamo pure che ci mette un quid sulla bilancia e sposta l'ago verso l'opzione due. E se posso mi sembra una porcata tanto quella di Brenno che mette la spada sulla bilancia a Roma e dice ai Romani "Vae victis" (Onoriamo la storia fino in fondo: quando i barbari se ne vanno arriva Flavio Camillo che incazzato urla ai senatori: "Non auro, sed ferro patria recuperanda est!" - non so se l'ha detto urlando incazzato, ma a me piace immaginarlo così).
Quindi vabbè continuiamo con Napval e vediamo che ne esce fuori. 
Au revoir.

SHOT CALLER - MA CHE VOR DÌ?


E' una pellicola del 2017 che credo non abbia avuto molta distribuzione nei nostri cinema, a me era abbastanza sconosciuta , tanto che ora ce la ritroviamo in streaming legale. S tratta di una buona prova attoriale di Nikolaj Coster_Waldau, il Jamie Lannister del trono di Spadem per intenderci (e forse unico motivo per un appassionato della serie che ne giustifichi la visione). 

Il genere è quello abbondantemente sfruttato della vita carceraria nei penitenziari statunitensi. Secondo la consunta rappresentazione cinematografica “ammericana” sarebbero luoghi più simili ad un girone infernale che a istituti di detenzione con finalità riabilitative nonché ultimi baluardi di lotte razziali tra bianchi neonazisti e latinos da un lato e afroamericani dall'altro. 

Il tema è già stato esplorato altrove. Un membro rispettabile della società civile finisce suo malgrado (o quasi) nel pozzo senza fondo del sistema carcerario da cui non ne uscirà se non peggiorato nell'animo e nella fedina penale. Ma intendiamoci, qui non c'è nessun intento di denuncia sociale, come poteva essere un ahimè poco conosciuto ...E giustizia per tutti (imperdibile e assolutamente da rivedere, del 1979 di Norman Jewinsono, con un Al Pacino avvocato battagliero e idealista). 

Siamo piuttosto di fronte all'esplorazione di un abisso mentale. Quello di un giovane yuppi affermato, con bella casa, bella moglie e figlio a carico, la cui vita viene stravolta da un incidente d'auto. Inizierà da lì in poi la discesa negli inferi da cui, prima per necessità e poi sempre più per scelta, il Nostro deciderà di non voler più risalire. E' proprio qui il senso del film o se vogliamo la novità. 

Se in altre pellicole più blasonate il protagonista ne usciva libero o redento (vedasi Le Ali della Libertà, 1994, con Tim Robbins e Morgan Freeman in stato di grazia), o ne veniva schiacciato senza pietà e senza alcuna possibilità di salvezza (il cliente di Pacino in ...E giustizia per tutti), o per riottenere la agognata libertà deve trasformarsi in assassino (guardatevi Un uomo innocente, 1989, con Tom Selleck e un mitico mentore F. Murray Abraham), ebbene qui il protagonista opera la scelta inversa quella di voler sprofondare sempre più nel fondo fino ad incontrare Satana in persona, metaforicamente (ma neppure tanto poi), impersonato da personaggio de La Bestia (ma guarda un po'...). 

Al di là dell'interesse che può suscitare la novità, e seppure il film mantiene un certo ritmo, che devo dire rallenta un po' nel finale, sbandando più sul gangster movie che sul carcerario per poi ritornare sui binari tracciati (per tacere della messa in scena che alternando flashback alla narrazione on time inasina un po' le cose del mancato sviluppo dell'antagonista che ironicamente è il poliziotto buono la cui storia si vuole approfondire ma poi ci si tira indietro), non si capisce dove si voglia andare a parare. Abbiamo tolto la denuncia sociale e sta bene, abbiamo mostrato un uomo vittima delle circostanze e pure ci sta bene. Lo vediamo che sceglie il male ma non se ne capisce il perché in fondo se non quello di un ipotetico riorientamento professionale, come se il destino gli dicesse : “Sì, abbiamo capito che sei un uomo da affari, bravo e buono, ma in realtà sei un figlio di 'ntrocchia e poiché è questa la tua vera natura, mo' te lo faccio capire meglio: tiè va' in carcere”. Boh, ma anche 'sti cazzi diremmo noi. 

Comunque nel complesso lo aggiungerei ad un'ipotetica collezione di film carcerari ma non lo metterei ai primi posti della classifica; siamo più in zona retrocessione, tipo campionato andato a puttane e ora ti tocca lottare per non essere risucchiati da quelli che andranno ai play out. 

Voto: 5/6. Cioè si può anche vedere... ma anche no e chi se ne sbatte.