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giovedì 16 luglio 2020

Indice di Qualità Napvalica

Sono lontani i tempi in cui riuscivo a godermi prima e seconda serata davanti alla Tv. 

Già da alcuni anni mi capita di addormentarmi sul divano e di perdermi buona parte della visione di film, serie e spettacoli vari. Spesso poi mi sveglio nel mezzo della visione e, se posso, cerco di tornare indietro fino all'ultimo punto che mi ricordo di aver visto; quasi sempre mi riaddormento. 

Alla fine, quando vado a letto, mi chiedo: era un bel film ?

Volendo quindi fare di vizio virtù, ho messo a punto un sistema di valutazione della qualità di film, serie o spettacoli vari, che si basa sia sul tempo di visione e sia sul numero di interruzioni. 

L'ho chiamato Indice di Qualità Napvalica o abbreviato IQN. 

L'assunto è che la qualità del film (serie o spettacolo...) è direttamente proporzionale al tempo di visione e inversamente proporzionale al numero di interruzioni. 

Qui sotto la spiegazione per chi vuole, per gli altri buona notte. 
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COME SI CALCOLA:

IQN = t1 - t0 / 1+ k 

Dove: 
IQN = indice di qualità napvalica (dovreste saperlo già, se siete stati molto attenti finora); 

t1= tempo in cui avviene l'interruzione o tempo effettivo di visione calcolato in minuti 

(ad esempio: se mi addormento dopo 30 minuti dall'inizio, sarà: t1= 30);

t0= tempo zero o di inizio del film/spettacolo 

(è sempre uguale a zero perché è il momento di inizio della visione; è ovviamente inutile perché è sempre uguale a zero, ma mi piaceva metterlo: che cavolo mica è matematica, è Napval!);

k = numero di interruzioni, cioè il numero di volte che mi addormento durante la visione 

(al denominatore ho messo "1+k" per evitare i casi in cui non essendoci interruzioni si abbia il denominatore uguale a zero. Visto che precisione? Non ho fatto lo scientifico mica per niente, nèh!); 
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E' ovvio che non pretendo che questo indicatore sia esaustivo di tutta la valutazione qualitativa di film o simili, né che sia affidabile, in quanto fortemente influenzato dalle mie condizioni fisiche al momento della rilevazione. Per questo, a volere essere onesti bisogna concedere almeno due possibilità ai film, se è possibile cioè se sono registrati, in modo da evitare quelle valutazioni in cui si è troppo stanchi e ci si addormenterebbe comunque.

Ecco, magari non sarà apprezzato da tutti, ma volevo comunque dare questo contributo all'umanità.

Confido che l'umanità accolga questa iniziativa come tutte le altre mie precedenti: con adorante devozione.

Adieu!



lunedì 13 luglio 2020

Non scrivete così!

Dopo aver letto la biografia di Labranca ho acquistato il libro di C. Giunta "Come non scrivere"(Utet, 2018). 

E per inaugurare il nuovo lettore che MCA mi ha regalato per celebrare il mio 42° genetliaco ho scelto la versione digitale ("E 'sti cazzi", mi si dirà giustamente).

Cercavo un manuale che mi aiutasse a scrivere meglio, che mi aiutasse ad avere uno stile più curato, meno piatto e possibilmente ad evitare strafalcioni.

Ho trovato molto di più. 

Quello di Giunta non è solo un testo molto chiaro sullo scrivere correttamente ma è anche un'analisi di come noi italiani scriviamo e purtroppo pensiamo. 

La lezione che si impara da questo libro è che scrivere male porta a pensare male; dove per male intendo in modo oscuro, artefatto e volutamente ricercato, o come direbbe Labranca (che qui viene pi
 volte citato): da cialtroni. 

Perché purtroppo e questo un difetto della nostra nazione: l'essere dei cialtroni, che quando scrivono, parlano e ahimè pensano, lo fanno come dei contadini che si vestono con l'abito della festa (per usare una metafora presente nel libro), ma che nel profondo restano dei villici (questo lo dico io).

Mi viene in mente Moretti quando in Palombella Rossa urla: "Chi parla male, pensa male e vive male!". Ecco appunto. 

La metafora del contadino vestito a festa può pure essere offensiva, ma è molto chiara. Non è certo Giunta a dirlo per primo. Lui stesso cita altri predecessori quale ad esempio Calvino, che parlava di "antilingua". 

Che cos'è l'antilingua? E' un modo di usare la lingua italiana che si rifiuta di chiamare le cose per quello che sono. Insomma un uso che rifugge sdegnosamente da qualsiasi riferimento a connotati reali o materiali. Una filosofia perversa che fa della ricercatezza, dell'arzigogolo, della perifrasi artificialmente dotta, un punto d'onore. E' un'idea di eleganza a discapito della comprensibilità; ma appunto è solo un'idea cioè un supporre che chiamare le cose, e sopratutto gli oggetti materiali, con il loro nome, sia uno svilirne lo status. 

Pura stupidità. 

Il dramma di noi italiani è che noi scriviamo così perché pensiamo così. La causa e l'effetto si rincorrono a vicenda. Noi crediamo, da buoni villici, di essere in difetto se non ci ammantiamo di un artificio linguistico che ci fa sembrare falsamente nobili. Pensiamo che per dire una cosa la si debba dire con ricercatezza a cui contrapporre la presunta bassezza della lingua comune. E poiché tutto questo lo si insegna già dai primi anni di scuola risulta evidente che più in là si va con gli anni e più le cose peggiorino. 

Mi viene in mente questo esempio tratto dall'esperienza personale ma che credo sia comune a molti: se dobbiamo prendere il treno, dobbiamo prima comprare il biglietto. Si badi bene, il biglietto! Se andiamo in stazione troveremo un ufficio con una grande insegna in cui c'è scritto: biglietteria. Oppure delle macchinette automatiche in cui si possono acquistare i biglietti. Oramai da tanto tempo, poi, se vogliamo farlo da casa, possiamo comprare il biglietto sul sito internet. Cosa compreremo? Ma il biglietto, è ovvio! Detto questo, perché quando andiamo in stazione troviamo scritti dei cartelli in cui si avvisano i viaggiatori che prima di salire in carrozza bisogna "munirsi del titolo di viaggio"? Perché non si può semplicemente chiamarlo "biglietto", come Dio comanda? 
Il motivo è semplice. Perché biglietto è un termine troppo materiale e quindi senza dignità. E forse anche perché stiamo parlando di una norma e le norme devono avere un tono imperativo ma soprattutto, per la perversione di cui sopra, non possono essere scritte nell'italiano comune, troppo basso, troppo popolare. Le norme sono superiori all'uomo pertanto vanno scritte in una lingua superiore. Ed è assurdo perché invece le norme devono essere chiare, inequivocabili e soprattutto comprensibili, se no non servono a niente. 

Ma quello della scrittura delle norme è solo un esempio. Giunta ne riporta altri, e sono particolarmente gustosi quelli che esamina in appendice.

In conclusione, penso che sia un'ottima lettura, un po' per tutti. Il tono è molto diretto e il messaggio è molto chiaro. 
Ma al di là del contenuto esplicito, tra le righe vi è l'invito a fare una sana autocritica; un invito a chiedersi se il proprio modo di comunicare sia comprensibile o no. 

E questo certamente non fa mai male. 


FINE

martedì 23 giugno 2020

Le alternative non esistono: Labranca è vivo.

E' più di un giorno che mi frulla in testa l'idea di questo post. Penso all'incipit, a come proseguire, a come argomentare. Troppi pensieri, troppo caos. E' anche un post disonesto perché tratta di un libro che non ho ancora finito di leggere ma non riesco a resistere: l'impulso è troppo forte.

Così lo metto giù e basta, così come viene. 

Come quando qualche giorno fa ho letto su un quotidiano la recensione del libro di C. Giunta "Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca" (Il Mulino, 2020). Appena terminata la lettura dell'articolo ho sentito la necessità di acquistarne una copia e mi sono recato appena ho potuto presso una delle principali librerie della mia città incredulo sulla possibilità di trovarne una. Sono stato fortunato e una copia c'era (l'unica?) e mi sono anche chiesto che tiratura e quali acquirenti potrà mai avere un testo del genere. 

Di Claudio Giunta, professore universitario di letteratura e collaboratore di quotidiani e riviste non avevo letto nulla se non due pregevoli articoli su Internazionale in cui aveva coraggiosamente definito Lo Sgargabonzi (alias A. Gori) "il migliore scrittore comico italiano". Quando ho realizzato che si trattava di quel Giunta che scriveva di quel Labranca non c'è stato nulla da fare, l'impulso all'acquisto si è tramutato in brama. 

Ma due sono i motivi originari che mi hanno fatalmente indotto alla frenesia dell'acquisto. 

Il primo è che quando circa quattro anni fa lessi la notizia della sua morte (quasi fortuitamente, dato che non gli vennero dedicate molte righe sui giornali), ci rimasi male. Ci rimasi male come può rimanerci male un fan, o un sostenitore, insomma uno che alla fine si prenderebbe la libertà di dare del tu ad un idolo incontrato per la strada, basandosi sulla falsa presunzione di aver instaurato con lui una qualsivoglia relazione solo per il fatto di averne letto con avidità le opere. 
Eppure se ci penso, e più procedo nella lettura del libro di Giunta me ne convinco, se avessi incrociato Labranca dal vivo, se avessi avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere con lui, non ne sarei uscito bene e molto probabilmente lo avrei schifato, e per ignoranza (la mia) e per incapacità dialettica (sempre la mia, ovviamente). Il fatto è che Labranca era per me una di quelle voci remote che Giunta definisce ottimamente come "un gruzzolo di esseri umani lontani, nel tempo o nello spazio, con cui conversare". Sicuramente, nel mio piccolo, condivido con Giunta questo patrimonio. 

Il secondo motivo è un po' intimo, se mi si concede il termine. E' il fatto che le letture di "Andy Warhol era un coatto" (1994), "Estasi del pecoreccio" (1995) e "Chaltron Hescon" (1998), mi rimandano con la memoria ai tempi del Liceo, negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, quando una mattina di un mese imprecisato, il professore di Filosofia si presentò in classe brandendo il primo volume di cui profferì un'entusiastica recensione che mi indusse di lì a breve ad acquistarlo e a leggerlo avidamente. Iniziai da allora a sospettare della Cultura con la C maiuscola e sopratutto dei suoi più fervidi sostenitori. Gli sarò sempre grato per questo. 

Il libro di Giunta è un tentativo romantico di sottrarre all'oblio le idee e la storia di un intellettuale scomparso prematuramente. Per quello che possa valere (molto poco, lo so) sono grato a Giunta per quest'opera. Era un'opera necessaria per non disperdere nel mare magnum il pensiero di Labranca. 

Mi piacerebbe consigliare il libro a tutti. Ma sono anche sicuro che pochi lo apprezzerebbero perché pochi purtroppo hanno letto gli scritti di Labranca e temo che a parte gli addetti ai lavori pochi si ricordino di lui (se non quelli che ne hanno un vago ricordo per le apparizioni televisive, come nel programma di successo Anima mia, che per inciso non ho mai guardato). 

Se ripenso a Labranca mi chiedo: ma questo blog è trash? Ma certo che lo è. Non perché sia "spazzatura", cioè una paccottiglia di scarso valore scritta alla bene e meglio (o bene e peggio). Ma perché è trash proprio per la definizione che ne dà Labranca. Il trash è il risultato di una fallita emulazione di un modello alto il cui esito è involontariamente comico. L'autore di trash non è consapevole dell'esito della sua operazione perché ingenuamente e sinceramente crede che quello che fa sia di valore. Anche io nel mio piccolo faccio trash. Se rileggo i vecchi post, ma ahimè anche i più recenti, mi rendo conto di aver cercato di emulare chissà quale critico letterario o cinematografico ideale senza possederne i mezzi. Siamo onesti non sono un letterato e nemmeno un esperto cinefilo. Scrivo male e le mie analisi non aggiungono nulla a ciò che già è stato scritto e detto. In più il tono è spesso impostato ma l'esito, la scrittura scialba e a volte sgrammaticata, l'errore di battitura e la chiusura del post malriuscita suscitano ad un occhio esperto tenerezza quando non ilarità. 

Cos'altro dire? Nulla. Lo faccio così. Scrivo tanto per farlo, perché mi diverte. Ma riconosco la scarsa qualità del tutto. Sono un "blogghista" della domenica.

Almeno lo riconosco e forse in per questo con me Labranca sarebbe stato pure indulgente. 




venerdì 19 giugno 2020

Gli ultimi due film di Spike Lee

Ho finalmente visto gli ultimi due film di Spike Lee. Intendo "BlacKKKlansman" e "Da 5 Bloods".

Allora, non posso dire che mi sono piaciuti.

 In breve ecco perché: troppo didascalici. L'intento politico ha la meglio sulle vicende. 

Nel secondo è molto evidente. Tutta la prima parte di "Da 5 Bloods" è un pistolotto sulla storia semi-sconosciuta degli afroamericani. E secondo me il film funziona proprio da metà in poi, quando finalmente le vicende dei protagonisti prendono il sopravvento e comincia un buon action movie. 

Se si prendono i film precedenti, quali ad esempio "Jungle Fever", "Fa' la cosa giusta", "He got game" , "Bus in viaggio" , "Clockers", e perfino "Inside Man" (bellissimo crime - movie!), la narrazione poggiava sui personaggi. Ovvio che poi passavano dei messaggi di critica sociale alla realtà americana; di denuncia del razzismo, delle disuguaglianze e delle tensioni sociali e interrazziali che caratterizzano quella società. Ma la storia, i personaggi, le loro azioni e reazioni erano in primo piano. 

In questi ultimi due le parti si invertono. Le vicende sono funzionali a tenere una lezioncina, largamente pedante, alle nuove generazioni, come a dire: "Ecco, guardate, tutto questo non c'è nei libri di storia o se c'è non lo dovete certo dimenticare". 

Comunque se dovessi sceglierne uno sceglierei "BlacKKKlansman". Ma non si distanziano molto. 

The end.

martedì 9 giugno 2020

Ok, siamo a Giugno.

Ho visto solo adesso che l'ultimo post è del 22 maggio. 

Ok, siamo al nove di giugno. 

Mai come oggi è d'uopo rispolverare il vacuo giudizio scolastico "è intelligente ma non si applica". Ma sarà proprio vero? Dell'intelligenza, intendo, perché la pigrizia non si discute.

Va bene, riprendiamo. Dall'ultimo aggiornamento a questo blog...

ho visto: 
- Il buco (El hoyo, 2019). E' il film che mi ha colpito di più. Non sono un fan degli horror ma qui siamo tra horror e la fantascienza, un po' come ne "Il Cubo" (Cube, 1997). Qui però c'è più filosofia, più critica sociale. C'è chi ci vede una critica al capitalismo e di primo acchito parrebbe proprio così. Sì, è possibile che sia così. Comunque secondo me è tra gli imperdibili. Da tanto tempo un film non mi colpiva così, sia per la crudezza che per il messaggio. Imprescindibile;
- Un compleanno da leoni (21 & Over, 2013). E' un incrocio, non molto riuscito, tra "Una notte da leoni" e "American Pie" ma non è all'altezza dei modelli. Insomma, non è il massimo ma si lascia vedere. Divertente quanto basta;
 - Project Almanac - Benvenuti a Ieri (2015). E' un film fantascientifico adolescenziale. Nel senso che i protagonisti sono i soliti nerd americani della scuola superiore e la storia è l'ennesima variazione sul tema "macchina del tempo usata mentula canis con problemi annessi". Beh, mi è piaciuto. Il ritmo è sostenuto, la recitazione accettabile, la storia tiene. Unico neo la regia isterica. E' girato tutto in soggettiva, volutamente, come se fosse fatto con una videocamera a mano. Che due palle! Però lo consiglierei comunque;
- Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn (2020) (ma a proposito, il titolo originale è "Birds of Prey and the fantaboulos emancipation of one Harley Quinn", che io avrei tradotto con la "fantasiosa emancipazione di una Harley Quinn", dove "una" non è articolo indeterminato ma pronome numerale, ma vabbè io non sono un traduttore e magari dico minkiate...). Giudizio: mah, senza infamia e senza lode. Mi aspettavo molto di più. Per carità si può vedere, ma niente di che; 
- i primi 4 episodi della serie Snowpiercier. Cacchio, mi piace. Il tono è completamente diverso dal film del 2013, che secondo me la buttava in vacca calcando troppo sul grottesco. No, qui ci prendiamo sul serio. Fondamentalmente è più un giallo che un film di fantascienza. Ma secondo me ci sta. Mi sta piacendo;
- alcuni episodi dell'anime Baki. Ultraviolento e assurdo e secondo me con qualche velata tendenza gay. Superuomini muscolosi che si menano. C'è del gaio in Danimarca.
- Major League (1989). Sì, volevo rivederlo, solo per l'ingresso di Charlie Sheen all'ultimo inning con tutto lo stadio che canta "Wild Thing". Solo gli americani sono capaci di inventarsi cose così e prendersi pure sul serio. E la cosa funziona, cacchio! Funziona eccome. Vorresti esserci anche tu a saltare e urlare: "Wild Thing! You make my heart sing..." Ed è solo un film. Volevo rivedere il secondo ma non lo trovo "Major League 2 - La rivincita" (1994). E ho scoperto che c'è pure un terzo, "Major League 3 - La grande sfida" (1998), ma non ha lo stesso cast e non mi attira. Non lo vedrò.
- qualche episodio sparso di "E alla fine arriva mamma! " in lingua originale e sottotitoli. Così solo per rivedere i miei episodi preferiti. Uno su tutti "il Blitz" (episodio 6x10) che è la parodia di Lost.
- "The battered bastard of Baseball" (2014). Da vedere!!! Un documentario sportivo sulla squadra di baseball di proprietà del padre di Kurt Russell (lo so è strano ma è così, e il nostro eroe ci ha pure giocato un anno). Mi ha colpito moltissimo. Un documentario su una storia che andava raccontata. Una di quelle che colludono tremendamente con il mio essere un inguaribile nostalgico dei tempi andati, delle storie piccole che non vengono ricordate dai più ma custodite nei cuori di pochi (ok, l'ho sviolinata troppo, nei cuori dei pochi... che puttanata. Però un po' ci credo. Voglio dire che ci sono storie, magari non grandi ma che rimangono almeno nelle memorie di quelli che le hanno vissute in prima persona o ne sono stati testimoni, diretti o indiretti, ed poiché sono storie in cui si respira un romanticismo sottile e sotterraneo, è giusto che vengano ricordate e tramandate. Tutto qui.) ;
- altro che non ricordo, ma niente di che;

ho letto: 
- "Il giorno del Lupo" di Lucarelli. Una storia sull'Ispettore Coliandro che ho divorato in due giorni (vabbè, è anche breve). Un giallo o meglio un poliziesco con venature comiche. Ma pur sempre poliziesco e quindi giù violenza e cattiveria. Insomma Lucarelli è un grande e poi mi chiedo: sembra niente ma in poche pagine ti fa una storia completa dalla a alla z molto più di spessore di quanto apparentemente possa sembrare. Attenzione.

- il quinto numero del ciclo 666 di Dylan. Sì, sto continuando, volevo smettere ma è più forte di me e tra poco esce il nuovo Old Boy...

- un manuale di Analisi Transazionale. Lasciate perdere non capireste. Comunque è quello di Stewart e Jones cioè uno dei migliori se non il migliore.

- "It" di S. King. Allora, non l'ho letto tutto. Sono solo a pagina 524. Però vado fino in fondo. Ho preso l'impegno e lo onorerò. Ma non è difficile. Solo che è un libro immenso, vasto, è un'epopea più che un romanzo. E insomma non riesco ad essere rapido. Lo sto digerendo piano piano (..."è intelligente? Sicuramente non si applica. Mi dispiace"...);

ho giocato: 
- Halo CE - su 360. Lo voglio finire. Adesso sono fermo al livello della biblioteca;

Riassumendo.
Ho letto poco. Male, molto male. 

Riassumendo veramente.
Boh, non so che altro dire. 

Finale.
Alla prossima. 

venerdì 22 maggio 2020

Mortdecai

Volevo scrivere questo post alcune settimane fa. 

Sono in ritardo. Non ho giustificazioni; Coronavirus, quarantena, lavoro agile, pigrizia... un po' di tutto, a dire la verità. 

Qualche settimana fa il post doveva avere un suo mordente. Doveva essere un po' critico nei confronti del film Mortdecai (2015), che avevo visto sullo streaming Rai e che ero intenzionato a vedere da diverso tempo (almeno da quando il faccione curato e truccato di Depp aveva iniziato ad accogliermi ogni mattina prima di entrare al lavoro facendo capolino sulla bacheca pubblicitaria del cinema lì vicino). 

L'idea doveva essere quella di chiedersi se si può insegnare a fare cinema, spiegando chiaramente cosa non si deve fare e non solo cosa va fatto. Immagino che nelle scuole di cinema si proiettino i film migliori, quelli da imitare (o più prosaicamente da copiare), e si insegnino i "fondamentali" per produrre un buon film. Allora ho pensato che si potrebbero mostrare anche i film che non funzionano, quelli brutti o che presentano difetti tecnici e strutturali e si potrebbe dire agli studenti: "Non fate così".

Tutto ciò per dire che il film non mi è piaciuto. I motivi sono diversi. Nonostante un cast di tutto rispetto, una certa profusione di finanziamenti che appaiono nella cura dei dettagli e della scenografia e forse anche di una storia che in fin dei conti ci poteva pure stare ed essere avvincente, il film non va. Forse è il protagonista che non suscita nessuna immedesimazione quanto invece repulsione. Ma non la repulsione che potrebbe suscitare un cattivo tutto tondo, una maschera, per la quale in fondo si prova simpatia, fascinazione e anche empatia. No, proprio non è questo tipo di protagonista. Mortdecai, il personaggio intendo, è insulso e stucchevole. E mi dispiace per Depp che fa il suo onesto lavoro, forse caricando un po' la recitazione, ma senza strafare. Siamo comunque anni luce da Jack Sparrow e tutto il resto, intendiamoci. Se l'idea era trasportare un corrispondente tipo alla Jack ai giorni nostri, be' hanno toppato di brutto. Amen. 

Comunque, mentre mi arrovellavo su queste profonde meditazioni su Mortdecai, mi sono detto: ma perché parlare male di un film (e per esteso di qualsiasi opera?). Che diritto ho io di analizzare al fine di dire male dell'opera di qualcuno che ci ha messo impegno e fatica e soldi e speranze e illusioni e desideri e via dicendo? Un po' di rispetto, diamine. Quindi ho rinunciato. Non volevo più scrivere nulla e la stessa ritrosia mi ha preso per qualunque altra opera siano libri, fumetti, quadri, vini (di cui sono un riconosciuto esperto nonostante sia praticamente astemio e non mi piacciano particolarmente), scritture antiche, opere Maya influenzate da visite extraterrestri, filmini porno amatoriali, e un po' tutto ciò che fa cultura oggi. 

Insomma, forse devo ammettere con me stesso che la quarantena ha avuto un effetto più dirompente di quanto immaginassi. Ma ho iniziato una profonda meditazione sull'essere e il non essere e sull'avere e il non avere. In pratica mi sono detto: ma vivi e lascia vivere! (o come direbbe McCartney: "Vivi e lascia morire").

Da un po' di tempo cerco di ripetermi spesso la seguente frase:"Chi è senza peccato, scagli la prima pietra." Ho riflettuto sul significato e penso che quello più puro e scevro da sovrastrutture sia semplicemente: "Non giudicare". 
E' stato detto anche più chiaramente "Non giudicate se non volete essere giudicati", ma qui ci vedo più l'intervento di una morale religiosa e non è quello che mi interessa. 

Ciò che credo è che a partire dall'assunto che giudicare il prossimo sia sempre sbagliato, bisogna sforzarsi di sviluppare quanto piùè possibile un'empatia nei riguardi dell'altro. Insomma un mettersi dal punto di vista dell'altro e capire come scriveva Fitzgerald nell'illuminante prima pagina de "Il grande Gatsby", che non tutti hanno avuto le tue opportunità. 

Ora, se questo vale per chi ha avuto meno opportunità di noi, può valere anche per chi ne ha avute di più? Io credo di sì. Se io scrivo male di un regista o di uno sceneggiatore, di un attore o un produttore, a che titolo lo faccio visto che non ho mai lavorato nel cinema. Sì, sono uno spettatore, ho un mio gusto estetico, preferenze e bla bla bla. E quindi? E' giustificata l'acrimonia? 
No. 

Meglio vivere e lasciare vivere, o meglio vivere e lasciare morire. 






mercoledì 8 aprile 2020

L’inganno perfetto? Non mi ha convinto


Grazie ad un abbonamento appena rinnovato ad una piattaforma di streaming legale (perché io vedo solo streaming legale e a pagamento, giuro), ieri ho potuto vedere in 4k il thriller “L’inganno perfetto”.

Al che mi direte: e a noi che ci frega? Rispondo: avete ragione. Ma allora cambiate pagina e andate a vedervi qualche pornazzo e non rompetemi il c…o (sono in vena di rime…è la quarantena che stimola la mia vena poetica).

Comunque, come sempre: NO SPOILER!

A proposito: io aggiornerei i comandamenti ai tempi moderni, perché ogni tanto ci vuole, e toglierei il “non fornicare” (…uno a caso…), che tanto è difficile rispettarlo, con: “Non spoilerare!”, con tanto di punto esclamativo che da più un senso di perentorietà (da notare la povertà linguistica di questo passaggio: ci sono ben tre avverbi “tanto” in tre righe: vergogna! E vuoi pure fare lo scrittore? Ma fammi il piacere…).

Ecco.

L’inganno perfetto  è un film del 2019 diretto da B. Condon e tratto da un romanzo di N. Searle.
Non ho letto il romanzo pertanto non posso esprimere un parere. Del film posso dire però che si avverte la sensazione che la storia abbia una “base” narrativa, soprattutto nella seconda parte. Ma questo è un difetto.
Immagino nel romanzo lo svolgimento della storia si dipani con un ritmo consono alla narrazione letteraria, che non è stato reso nella trasposizione su pellicola.

Il film si regge in piedi grazie alla prova attoriale di due “mostri sacri” quali I. McKellen e H. Mirren.
La trama si svolge intorno al rapporto tra i due; sui loro scambi e sul fatto che lo spettatore sappia già che c’è un inganno che dovrà rivelarsi prima o poi. La prima parte scorre bene, ottimi attori, ottima regia, ottimi tempi e storia accattivante. La seconda parte, no. La trama subisce un’evoluzione repentina, purtroppo con poco pathos, e si susseguono colpi di scena, o almeno nelle intenzioni della sceneggiatura dovrebbero essere tali, in una costruzione per accumulo a scapito della tensione.

Immagino che nel romanzo il rapporto tra i due protagonisti sia ben approfondito (lo spero, almeno…) e costruito per non rivelare nulla al lettore. Non è lo stesso per il film: noi spettatori degli anni 2000, smaliziati e con decine e decine di film e libri alle spalle, lo capiamo chi dei due prevarrà. Insomma, pure al netto delle rivelazioni, si immagina subito dove si andrà a parare.

Conclusione.
Non mi è dispiaciuto. Ma non è stato nulla di particolare. Si apprezza per la presenza dei due attori protagonisti e per un po’ di curiosità, non sul “come andrà a finire”, ma sul “come lo faranno finire”, che non è la stessa cosa.

Voto: 6. Ma per il rotto della cuffia. 
Mi aspettavo di più.

sabato 4 aprile 2020

Il ricevitore era una spia!

The Catcher was a spy è un film del 2018 tratto da una storia vera. 
E' l'incredibile storia di Moe Berg un ex giocatore professionista di baseball che durante la seconda guerra mondiale diventò una spia del servizio segreto americano, l' OSS, l'antesignano della Cia. 

Per quanto la storia sia avvincente non lo è altrettanto il film. 
Non nella prima parte almeno, alquanto pallosa. Il cast è notevole: P. Rudd che intepreta Berg e poi Mark Strong, Sienna Miller, J.Daniels, G. Pearce, P.Giamatti e addirittura i nostri Favino e Giannini, che se mi è permesso dirlo (...ma certo che mi è permesso, è il mio blog, e poi ho ragione a dirlo...) fanno una figura molto migliore dei loro colleghi stranieri. 

Sinceramente la recitazione, main actor in primis (...che connubio di anglo - latino! A Dante gli verrebbe un infarto. Fortuna che è morto da qualche secolo...), è poco convinta e quindi poco convincente; insomma da minimo sindacale. Un po' come tutti, fanno il loro e niente di più. Lo stesso Strong è poco sfruttato, ha poco spazio nonostante intorno a lui ruoti la seconda parte della storia. 
Per questo dico che in questo film i due italiani possono insegnare qualcosa ai colleghi statunitensi. 

Forse è una pecca della sceneggiatura, che non ha saputo creare la giusta tensione, forse la storia in sé non era questo granché da essere tradotta su pellicola o forse non tutti erano in vena, ma insomma il film non mi ha convinto. 

Pensavo avesse a che fare di più con i baseball ma non è così. 

Ho un debole per i film sportivi, mi piacciono le storie vere in cui lo sport, qualsiasi esso sia, funga da metafora per la vita (il non arrendersi, il fronteggiare le sconfitte e il ritornare a vincere), ma qui lo sport c'entra poco e solo all'inizio. 

Poteva essere un buon film di spionaggio, allora, altro genere che prediligo. Ma niente neppure qui. Tensione prossima allo zero. Peccato. 

Nel complesso mi è sembrato un film più da tv del sabato sera sul secondo canale che da prime time sull'ammiraglia; del cinema manco a parlarne. Non so nemmeno se l'hanno passato e se lo hanno fatto sarà durato 5 minuti. 

Da vedere? No, c'è di meglio, sia che si voglia qualcosa di sportivo sia che si voglia vedere una spy story. 

Tiremm innanz. 



mercoledì 1 aprile 2020

Sulle note di Charleston

Charleston (1977) è uno di quei film in cui Bud Spencer recita senza Terence Hill. 

Direi che non è uno dei migliori. Sicuramente non all'altezza della serie di Piedone, che pure sono 4 film ottimi (secondo me l'intro di Piedone l'Africano, quello della rapina sull'autobus, è da antologia).

Ma quelli di Piedone sono film polizieschi, con venature di comicità, qui siamo nel tema "colpo gobbo", un po' alla Stangata o alla Ocean's eleven. 

Come in Ocean's anche qui c'è una squadra, una trama complessa (che non riuscirei a spoilerare nemmeno se volessi, e comunque non voglio mai), la solita truffa e il colpo di teatro (in tutti i sensi...ah ah...no vabbé è la quarantena che mi fa scrivere più ca..ate del solito).

Dicevo che non è uno dei migliori di Bud. La trama sarebbe anche buona, ma il tono troppo farsesco, troppo spinto su una comicità telefonata. Ci sono il gruppo di comprimari, tra cui figurano anche dei nomi di caratteristi (Coco e Lom su tutti) e la messa in scena è la solita di questi film; il budget è quello che è.

Il charleston inteso come ballo poi non c'entra nulla; il film non è nemmeno ambientato in America negli anni 30, ma a Londra e negli anni '70. 

E' un film come tanti, senza infamia e senza lode. Siamo sul 6 un po tirato. E' comunque meglio di tanti altri e un po' di divertimento lo riserva pure. 

In tempi di quarantena si può pure vedere. 






domenica 29 marzo 2020

Guns Akimbo: 2 pistole per Potter

Spero di non essere l'unico a considerare D. Radcliffe un attore con i contro c.

E spero di non essere l'unico a pensare che bisognerebbe coinvolgere Radcliffe in più progetti cinematografici da qui in avanti, perché il ragazzo fa il suo dovere e lo fa bene.

Questo Guns Akimbo (2019), scritto e diretto da Jason L. Howden è un bel action violento e ironico. E' girato come un videogioco, con scene frenetiche ma godibili, ed è abbastanza folle da ardire tanto da presentare pure Radcliffe che piscia in primo piano in una comicissima sequenza in bagno (...ho visto a rallentatore... usano un coso finto... ).

Se devo ipotizzare una fonte di ispirazione sicuramente mi viene in mente il dittico con Statham, Crank 1 e 2. Anche lì l'idea di partenza era abbastanza fuori schema e talmente poco credibile (il cuore collegato ad una batteria che deve essere alimentato a scariche di adrenalina) da richiedere una bella sospensione di giudizio; anche lì, come qui del resto, la sospensione gliela concediamo volentieri.

Akimbo è un termine che non conoscevo. Nei videogiochi sparatutto in prima persona vuol dure "a due mani". In pratica "guns akimbo" vorrebbe dire che il giocatore maneggia due pistole contemporaneamente.

Niente di più azzeccato per il Nostro. Con qualche piccolo dettaglio per rendere le cose più gustose:
1. è un pacifista, vegetariano, programmatore nerd, vessato dal capo (un po' come in Wanted con la Jolie, altro action ironico-violento);
2. è coinvolto suo malgrado in un gioco omicida organizzato da una banda di folli cattivoni in cui due sfidanti devono freddarsi a vicenda (idea non nuovisima, se ci pensate);
3. i cattivoni le pistole gliele hanno letteralmente imbullonate alle mani (da qui il titolo del film)

Da queste premesse prende avvio la storia. Nemmeno tanto originale per carità. Ma si vede con piacere.

C'è da dire che i comprimari non sono il massimo e tutto ruota, e funziona, intorno a Radcliffe che secondo me a fare quello un po' sfigato e fuori posto, dai tempi di Harry Potter in poi, ci sguazza benissimo.
Che avesse doti attoriali lo si era già capito prima in Potter e sopratutto in Imperium, in cui intepretava un agente FBI ansioso di mettersi alla prova, arruolato in una missione semi-suicida di infiltrazione tra i neonazi americani. Qui non fa altro che confermarcelo.

Ok.
Quindi, riassumendo: io lo consiglio. Sopratutto di 'sti tempi di virus in cui a casa ci si fracassa li zebedei.

Allora recuperate pure bibite e pop corn quando andate a fare la spesa con guanti e mascherine e collegatevi allo streaming legale.
Seduti comodi e con sano disprezzo del vostro fegato schiacciate play e mangiate.

Buon divertimento.





sabato 28 marzo 2020

Picard - un nuovo inizio? -- NO SPOILER--


Scrivo solo ora su Picard perchè ieri si è conclusa la prima stagione in italiano e volevo vedere dove andavano a parare prima di esprimere un giudizio. 

Prima domanda: se ne sentiva il bisogno?
Risposta: No, ma tanto l'hanno fata lo stesso.

Mi rendo conto che i produttori di serie tv devono quotidianamente sostenere spese elevatissime per mantenere il loro elevato stile di vita (ville a Hollywood, auto di lusso, vestiti, donne, viaggi esclusivi, sfizi di ogni genere) e a loro va tutta la mia comprensione ed empatia. Quindi capisco che avere tra le mani un franchise come star trek praticamente morto da più di un decennio sia un dramma che nessun operaio, minatore, donna delle pulizie o impiegato pubblico potranno mai capire a fondo. 

Ma si sa la fame aguzza l'ingegno. 


Ecco allora un'operazione che sta a metà tra nostalgia dei bei tempi (...eh quando c'era Picard queste cose non succedevano...magari ci fosse Picard, gliela farebbe vedere lui al virus...) e bisogno di trovare una linfa nuova, aprire nuove strade.

Il tutto inizia con una domanda che prima o poi tutti ci siamo posti nella vita: che fine ha fatto Picard?
Fortunatamente i provvidenziali sceneggiatori "ammaricani" ci tolgono ogni dubbio e fortunatamente ci liberano dalla sofferenza di questa spaventosa domanda: Picard è andato in pensione. 

Così lo troviamo bello bello nel suo buen retiro nella campagna francese, sostenuto e assistito da una coppia di romulani dal passato burrascoso, a badare alle vigne e a crogiolarsi nei ricordi dei tempi che furono. Il problema è questo ricordo non è così piacevole. Un uomo come lui, che a bordo dell'Enterprise, come ogni capitano di quella nave, ne ha viste di cotte e di crude non riesce a stare fermo o a rassegnarsi al fatto di lasciare fare alle nuove generazioni. Quando poi a chiedere il suo aiuto è niente poco di meno che il suo amico Data, allora non può proprio rimandare.

Questo è in soldoni l'inizio. 
Devo dire che la serie decolla da metà in poi. E verso la fine diventa anche abbastanza avvincente. Ma bisogna arrivarci. 

Il cast è buono. E a parte Stewart, ovviamente, ci sono anche altri apprezzati ritorni (che non vi dico per non sciupare la sorpresa). 

La storia è ben congegnata e secondo me si può giustamente ritenerla parte del canone trekkista. Dirò di più: è una buona serie di fantascienza laddove, a partire da un tema classico quale il rapporto tra uomo e macchine, uomo e robot, pone quesiti di natura esistenziale più elevati sull'origine e il senso dell'esistenza.

La messa in scena non si discute. Buoni effetti speciali, ma niente di trascendentale; in linea con star trek che conosciamo.
Un neo per i puristi potrebbe essere il fatto che le navi si pilotino con comandi olografici, un po' troppo avanti se prendiamo per buona la linea temporale di Picard. Ma vabbé, consideriamola una licenza poetica.

I personaggi sono ben tratteggiati. Ci sono sottotrame e storie personali che danno dimensione ai caratteri. Ovviamente in dieci episodi non ci si può spingere troppo a fondo, ma secondo me gli sceneggiatori hanno lavorato bene.

Ci cono i classici elementi di genere. Un nuovo equipaggio in rotta verso l'ignoto. Come andrà a finire? Lo sapremo nelle puntate che verranno. Senza spoilerare (ovviamente), dico solo che il finale lascia presagire una continuazione o meglio, pur concludendo la storia della stagione, getta le basi per nuove avventure. Vedremo quanto saranno avidi i produttori...

Concludendo.
Gli appassionati trekkisti non se la possono perdere, se non altro perché c'è Picard.
Tutti gli altri possono benissimo sopravvivere senza.
Non la metto tra le mie preferite e secondo me non vale Discovery, però la seconda parte della prima stagione, come intensità ci si avvicina un pochino. Quindi la salviamo.

Da vedere?
Boh. Vedete voi.


domenica 22 marzo 2020

Il club dei ragazzi miliardari

Se faccio un esame di coscienza chiedendo conto a me stesso dei miei gusti cinematografici sono due i generi di film che preferisco su tutti, anche sui film di fantascienza che pure amo.

Più che di generi si tratta di argomenti, anche se io li tratterei come generi a sé.

Sono i film sportivi e quelli ambientati nel mondo della finanza. 

Nel primo caso lasciamo stare i comici italici alla Mezzo Destro, Cotechino ed Ezzeziunale (che pure li ho visti tutti e non li rinnegherò mai perché mi hanno sempre divertito: "L'arbitro, il tifoso e il calciatore"con il mitico Pippo Franco e l'immarcescibile Mario Carotenuto, solo per citarne uno), perché mi riferisco a quel genere di film che tratta lo sport come metafora per narrare la formazione psicologica e il riscatto di uomini e donne colpiti da avversità. 

Il messaggio di questi film è sempre quello di non lasciarsi andare, di non mollare, di reagire alle avversità. E che esiste sempre un'altra possibilità di trovare un'altra strada, lecita e onorevole quando tutto il mondo ti dice che non esistono alternative alla sconfitta. 

Ce ne sono tantissimi da citare e se mi arrischiassi a fare un elenco rischierei di tralasciarne qualcuno ("Moneyball" è bellissimo e commovente, "Imbattibile" sulla storia incredibile di V. Papale, "Ultimo minuto" di Avati con un serissimo ed immenso Tognazzi, ecc). 
Il più delle volte sono storie vere o ispirate a fatti reali. Altre volte no. Ma non importa, quello che importa è il messaggio. 

Il secondo genere è quello ambientato nel mondo della finanza, o per estensione della ricchezza. Da Wall Street di Oliver Stone in giù, per intenderci, fino a "1 km da wall street" o al sottovalutato "I soldi degli altri" (del 1991 con DeVito e Gregory Peck), eccetera eccetera. 

Anche qui i titoli si sprecano e anche qui si corre il rischio di non essere esaustivi. Ci sono chicche e ci sono prodotti meno riusciti, ma il messaggio che condividono (la "morale" , come se si trattasse di una favola di Fedro) è sostanzialmente lo stesso: la ricerca sfrenata e immorale della ricchezza non solo non paga, ma si ritorce contro chi la persegue, con crudeltà. 

"Billionaire Boys Club" appartiene ovviamente a questo secondo genere. E' tratto da una storia cronaca nera che forse in Italia non ha avuto molta eco, ed è un film di J. Cox uscito nel 2018 (ma girato due anni prima) con un rispettabilissimo cast di attori, da quella vecchia volpe di Spacey (pre- scandalo) ad un gruppo di promettenti nuove leve quali T. Egerton (che ha già dimostrato di essere bravo in altre occasioni e secondo me è tagliato per i ruoli da cattivo) e A. Elgort, che qui ci sguazza a fare l'attonito bravo ragazzo coinvolto nella spirale maligna del dio denaro (come un degno discendente di Bud Fox, per intenderci). 

Dico che possiamo tranquillamente aggiungerlo alla ridda di film "finanziari"e metterlo di diritto ai primo posti della classifica. 

Ora, sul perché mi piaccia il primo genere, il film sportivo, potrei avanzare qualche facile ipotesi, ma me la tengo per me. 

Sul perché del secondo non saprei, anche se qualche brutto sospetto ce l'ho e mi sento più propenso a parlarne in due parole. 

Se assumiamo per vera l'interpretazione che la finzione artistica sia la rappresentazione di un conflitto e che l'apprezzamento estetico del fruitore sia legato a quanto si riconosca in quel conflitto, dovrei dedurre che forse anche io sono sensibile al fascino perverso della ricchezza facile.  

Tutti i film sulla finanza che ho citato hanno una prima parte, rose e fiori, in cui il profumo dei soldi, del lusso e della ricchezza è così intenso che quasi esce dallo schermo. E secondo me tutti quelli che guardano quei film ne sono irresistibilmente attratti, come di fronte al canto delle Sirene. 

Ma è la seconda parte, quella più interessante. Tutti questi film sono strutturati in una seconda parte in cui si ha la caduta. Il protagonista va in bancarotta o più facilmente è perseguito dalla polizia che implacabilmente fa venire i nodi al pettine. Insomma, è il duro risveglio e ritorno alla realtà: non ti meriti i soldi facili, te li devi sudare e forse pure con tanto sudore, non li avrai mai. 

C'è quindi un che di catartico in questi film. Vederli aiuta ad immunizzarsi contro il virus del desiderio sfrenato di cose materiali.

(virus? immunizzarsi? ... ma da dove mi viene l'ispirazione per queste analogie?)

Il messaggio finale, quello che va trovato scavando ancora più a fondo potrebbe allora essere questo, sotto forma di monito:  non cercare il benessere materiale, perché si tratta di qualcosa di fuggevole e caduco. Che poi uno lo cerchi anche per vie illecite, serve solo a peggiorare le cose. 
La caduta sarà più dolorosa. 

Greed is not so good.


sabato 21 marzo 2020

E mo' so' mazzate...

Dovevo vedere Ultras, l'ultimo film di Garrone, quasi uno straight to video, poiché in sala è passato tre giorni soltanto e poi in streaming su N.

E' un buon film. Ottimi attori, ottima la messa in scena, il montaggio e la regia. C'è a sperare che il cinema italiano continui a sformare prodotti come questo.

Non è un film sugli ultras o sul calcio. I tifosi fanno solo da sfondo, da ambientazione o escamotage per narrare una storia di un uomo alle prese con il desiderio di fuggire dal proprio passato.

Il protagonista è un vecchio capo ultras di un immaginario gruppo di tifosi del Napoli. E' un diffidato ed ormai è stanco della vita e del ruolo che tutti gli riconoscono, perché conosce una donna, se ne innamora e vorrebbe farsi una vita normale; quella vita che non ha potuto vivere fino ad allora. Che cosa gli rimane dopo tutti i cori, le trasferte, gli scontri e le diffide? Niente, si è reso conto di aver buttato la vita e vorrebbe correre ai ripari. Avrà la meglio sulla realtà?

Non so se Garrone si sia ispirato a qualche precedente, ma a me viene in mente un vecchio "The Firm", film inglese per la tv del 1988, con un giovane e promettente G. Oldman, da noi tradotto con il titolo "Ultimo Stadio" e passato in tv pochi anni dopo. Anche lì c'è la sottotrama del rapporto tra il vecchio e il giovane, anche lì gli esiti sono simili.

Intendiamoci, quello nostrano non è perfetto, ma va bene così. Non ci sono intenzioni sociologiche o didascaliche, e anche questo va bene. E' una storia, un racconto sulla vita di un uomo e sul suo tentativo di riscatto.

Da vedere.

giovedì 12 marzo 2020

Non voglio nemmeno nominarlo

L'Italia si è beccata il virus. Eh, già.
Sembra di essere tornati indietro di secoli ai tempi dei Promessi Sposi o del Decamerone. Tutti chiusi  casa anche se all'epoca si fuggiva dalle città per rifugiarsi in quale eremo di provincia con la speranza di salvarsi.

In questi giorni sono in ferie a casa insieme a tutta la famiglia, ovviamente. Lunedì prossimo rientrerò al lavoro, mi armerò di autocertificazione e mi recherò in sede dove scoprirò le novità (telelavoro sì, no, forse, probabilmente no).
Dovrebbe essere un periodo di riposo, di film e di letture. Ma la clausura forzata mi rende nervoso e il nervosismo porta ad un altro problema: si mangiano schifezze a iosa con bona pace di tutti i propositi dietistici.

Poiché non penso di essere l'unico a sperimentare tali sensazioni credo che quando l'emergenza passerà ci si ritroverà tutti fuori per strada. E quando saremo imbottigliati nel traffico o in coda al supermercato, rimpiangeremo tutto questo?

Penso di no.

Au revoir.

mercoledì 4 marzo 2020

Hunters - cacciatori

Hunters. Ok ho finito la prima stagione. Ed è l'unica che è uscita. Per me potrebbe anche chiudersi qui, con i due colpi di scena finali che valgono la visione fino in fondo ma che non trascinerei oltre in un'altra o peggio ancora in altre stagioni.

Ero in dubbio se guardarla o meno perché avevo letto delle critiche negative. 
Bisogna sempre affrontare le cose in prima persona. Vederle in prima persona e non lasciarsi influenzare dal giudizio altrui, che può essere una guida, un orientamento e certo anche un consiglio. Però il giudizio deve essere sempre individuale. 

Per dare un giudizio secondo me bisogna distinguere due aspetti: la serie in sé e l'argomento trattato. Perché le critiche, anche da autorevoli associazioni, sono indirizzate soprattutto al secondo aspetto. 
Lasciamolo un momento da parte e parliamo della serie in sé. 

Di che genere stiamo parlando? Fantapolitica? Giallo? Spionaggio? Avventura? Ho difficoltà a dare una definizione cioè ad incasellare la serie anche perché spesso oggi i generi sono mischiati e se si inizia in un modo, si va a parare in un altro. 

Qui siamo di fronte ad una serie simil-spy che ha forti venature drammatiche, di avventura, di giallo, insomma un po' di tutto. Ma fondamentalmente si tratta di uno scontro tra un gruppo di buoni contro un gruppo di cattivi che si dispiega in una reciproca caccia all'uomo. Solo che se sul gruppo di cattivi non si discute (sono nazisti, originali e neo, e quindi sono dipinti come malvagi, crudeli, violenti e via dicendo senza sfumature), e va bene), è il gruppo dei cosiddetti buoni a presentare quelle particolarità potrebbero interessare di più e che infatti influiscono di più sullo svolgimento della trama. Da qui, mi viene da pensare, il senso del titolo "Hunters", appunto; come a dire che stiamo parlando di loro e non dei loro avversarsi. Ma per carità è solo una mia ipotesi. 

Poi c'è la messa in scena. E qui si ondeggia tra ricostruzione storica degli anni '70 americani, abbondante uso del flashback per parlare della guerra, svolgimento della storia al presente da più punti di vista, e uso di una serie di intermezzi letteralmente farseschi che dovrebbero puntualizzare e spiegare ai più i riferimenti storici e culturali trattati. Sopratutto questi intermezzi, secondo me rendeono la prima parte della stagione poco digeribile. Sinceramente non li ho capiti, non mi sono sembrati divertenti, né funzionali alla storia. Insomma, è chiaro, non mi sono piaciuti. 

Gli attori fanno la loro parte. I nazisti a volte sono caricaturali e ciò non rende un servizio alla serie. Tra i buoni ci sarebbe Pacino, se non che mi sembra un Pacino che recita se stesso. Cioè è molto distante dal Pacino-Jimmi Hoffa di Scorsese. Per carità, ci sta anche, e io sono un suo fan ab illo tempore, ma qui mi sembra un'interpretazione normale, quasi da minimo sindacale. 

Arriviamo alla seconda questione. E qui le cose sono un po' scivolose e vorrei entrarci in punta di piedi. Da quello che ho letto una critica è stata quella di spettacolarizzare la Shoah, rappresentando ad esempio delle situazioni o episodi non accaduti senza che ce ne fosse la necessità. In pratica, se ho capto bene, la critica è: già è stato un evento terribile, che bisogno c'era di inventare episodi non avvenuti? Insomma perché inventare episodi che non sono accaduti (inventare torture, per intenderci) quando già si potevano descrivere quelli che purtroppo sono avvenuti? 

Secondo me la questione è ancora aperta. Ci sono ormai diverse rappresentazioni di nazisti, vedi prosaicamente i cosiddetti nazi-porno del cinema di serie B degli anni che furono, vedi anche, perché no, "I Bastardi senza gloria" di Tarantino, e vedi ad esempio un romanzo che a me è piaciuto molto quale "La variante di Luneburg" di Maurensig. In tutti e tre i casi citati (vabbé, ok, i nazi-porno sono un estremo un po' da ridere), il nazisti sono quasi un pretesto per raccontare una storia di fantasia, magari con altri intenti. Capisco però che la questione possa urtare le sensibilità di molti. Ma a me non sembra che ci sia in questa serie un intento denigratorio né di spettacolarizzazione o comunque di sfruttamento della Shoah. Secondo me sarebbe stato peggio se ci fosse stata un'ambiguità nel caratterizzare o distinguere i buoni dai cattivi. Ma qui si è certi che ciò non avviene. 

Mi sembra che si ricalchi molto, ad esempio, l'atteggiamento di Tarantino. Le vicende narrate sono in qualche modo funzionali alla storia. E' ovvio che così come non si può prendere il film di Tarantino come una rappresentazione storica e un documento di studio e collocarlo al di fuori della dimensione cinematografica, non si può fare lo stesso con questa serie. 

Insomma la storia si deve studiare sui libri e sulle testimonianze, non sui film e le serie tv. Questo è solo cinema, niente di più. 

the end

sabato 22 febbraio 2020

The tournament... per antonomasia...

The tournament è un film inglese straight to video del 2009, diretto da Scott Mann e arrivato da noi nel 2015.

La trama ruota intorno ad un torneo segreto di ammazzamenti organizzato da un cattivone fanatico per sollazzare un gruppo di ricconi scommettitori corrotti e figli di pu. che seguono le azioni da uno schermo in una località segreta.

I partecipati al torneo sono tutti killer professionisti che gareggiano nell'uccidersi a vicenda fino a che l'ultimo in vita sarà il vincitore e sarà premiato con un bel gruzzolo di quattrini. A tutti è stato impiantato un rilevatore e se non completano il torneo entro lo scadere di 24 ore, succederà, ma guarda un po', che il rilevatore si trasformerà in una bomba.

Il cast di attori non è male. Il cattivone è Liam Cunningham che interpretava Sir Davos ne Il Trono di Spade; l'eroina è un'atletica Kelly Hu; un cooprotagonista/antagonista è il nerboruto e immortale Ving Rhames; ma sopratutto spicca su tutti un gustosissimo Robert Carlyle nei panni di un prete cazzone e ubriacone, che vale da solo la visione del film.

La messa in scena è un po' cheap, come si dice oggi parlando figo, un po' da film televisivo. Però bisogna ammettere, e questo secondo me è un gran pregio del film, che non ci si lesina in spargimenti di sangue, esplosioni di corpi ben fatte e dita mozzate. Insomma una soddisfacente razione di gore che ne impedirà la trasmissione in prima serata sulla tv pubblica fino alla fine dei tempi.

Diciamo anche che la storia è improbabile e non è nemmeno tanto nuova. A me viene subito in mente Series 7: the Contenders, un filmino del 2001 di Daniel Minahan, a basso costo e girato per lo più in piano sequenza. In Series 7 i contendenti erano sfigati qualunque estratti a sorte e costretti a partecipare ad un reality televisivo in cui dovevano accopparsi a vicenda, il tutto seguito ossessivamente dalle telecamere televisive. Lì era evidente la critica alla spettacolarizzazione che i media fanno della vita delle persone comuni, in The tournament tutto questo non c'è. Qui si è interessati solamente a narrare una storia poco credibile e un po' paranoica e a mostrare una buona dose di violenza. Insomma, bisogna sospendere il giudizio e godersi lo spettacolo.

Nel complesso il film è anche accettabile, all'inizio è meno avvincente ma sul finale migliora. Comunque niente di che. Insomma se non c'è nient'altro si può vedere con una buona dose di pop corn.

Alla prossima. 


martedì 18 febbraio 2020

Mi dispiace gente, ma gli scimmioni siamo noi.

"La scimmia nuda - studio zoologico sull'animale uomo" è un celebre libro di Desmond Morris del lontano 1967. E' un classico, quindi è un testo che nonostante gli anni ha sempre qualcosa da dirci. Credo infatti che sia un testo imprescindibile per comprendere l'essere umano o quanto meno per spogliarsi di quella arroganza nei confronti della vita che ci fa credere iniquamente di essere benedetti da chissà quale soffio vitale di matrice divina.

Era da un po' che mi ero ripromesso di leggerlo ma avevo sempre procrastinato. Ma poiché ho una certa sensibilità nei confronti dei messaggi che l'Universo mi manda, quando in Shot Caller si cita inopinatamente "L'animale uomo" dello stesso autore (o l'animale umano, come leggo in alcune traduzioni, peraltro introvabile e fuori catalogo e non capisco perché), ho pensato: "Ecco, è giunto il momento".

Mai contraddire l'Essere o l'Universo, a dir si voglia, ci si potrebbe ritrovare in guai seri. Quindi l'ho recuperato al volo dalla biblioteca (in epub) e via.

Diciamo che Morris ha il pregio di rendere esplicito qualcosa di negato, di rigettato nelle profondità dell'inconscio collettivo, e cioè che in fondo noi tutti, nessuno escluso sia chiaro, non siamo altro che dei primati (animali insomma, e quindi scimmie senza pelo, cioè "nude"). Lo fa in modo deliberatamente discorsivo, senza appesantire il testo con citazioni e note bibliografiche che riserva solo all'appendice. L'intento è ovviamente la divulgazione.

Lo scopo del testo è quello di operare un'analisi della specie umana nel modo più disincantato possibile, scrostando le osservazioni da schemi e chiavi di lettura umanistiche o antropocentriche, semplicemente adottando il punto di vista di un biologo che si pone di fronte all'uomo come oggetto di studio al pari di qualsiasi altra specie vivente. 

Tutto questo mi ricorda un esercizio che ci era stato assegnato in un corso di scrittura che ho frequentato ormai tre anni fa. Il docente l'aveva chiamato "L'esercizio dell'Alieno". Il compito consisteva nel provare a scrivere un testo, descrittivo e non narrativo, adottando un punto di vista completamente scevro da chiavi di lettura precostituite, come se si fosse appunto un alieno appena atterrato sulla terra. Un esercizio divertente e istruttivo; il mio scritto, evidentemente comico, era sulla descrizione di un qualunque Supermercato. Ricordo con piacere che aveva molto divertito gli astanti. 

Ma vabbé...

Insomma, Morris fa più o meno lo stesso, al netto della comicità che non è per nulla ricercata né ottenuta. Quello che esce è una descrizione completa, sia fisica, comportamentale e sociale del genere umano, che ne mette in risalto la natura profondamente biologica. Una natura che difficilmente l'uomo abbandonerà, in quanto parte costituiva immanente del suo essere. 
Ho detto che dovrebbe essere una lettura che ci potrebbe aiutare a spogliarci dell'arroganza di crederci superiori al mondo in cui viviamo, perché effettivamente, anche se Morris cerca di esimersi da qualsiasi giudizio morale, non può non presentare tesi (e forse qui si lascia andare ad interpretazioni non del tutto dimostrabili e quindi a mio avviso sindacabili, ma comunque affascinanti e plausibili) che possano risultare inaccettabili ai più. Basta pensare all'origine della religione, dell'unione matrimoniale o alla necessità di prevenire la sovrappopolazione.

Comunque, mi dispiace gente ma scimmioni siamo e scimmioni resteremo a lungo, nonostante tutte le scoperte o i traguardi scientifico-tecnologici raggiunti.

Almeno finché, e questo lo dico io pensando a qualche episodio di star trek o simili (E NON C'ENTRA UNA CIPPA CON MORRIS), non saremo in grado di evolverci in esseri di pura energia e abbandonare il caduco involucro di carne che chiamiamo corpo. 

Che poi, mi chiedo, come cavolo sarebbe possibile ciò. Mi sembra una grandissima cavolata che ci si possa evolvere in energia cosciente. 

Boh.

La fin.




venerdì 14 febbraio 2020

Joker per chi l'ha visto

Tralascio di descrivere la trama, il film bisogna vederlo. E bisogna in tutti i sensi, perché al netto dei premi ricevuti, è comunque un'opera che spicca nel desolante panorama moderno. 

E' certamente un film difficile. Che deve essere lasciato sedimentare.

Ci vuole coraggio a proporre un'opera come questa e a giostrarsi tra i generi esplorandone i confini e trapassando quei limiti che a prima vista sarebbero impermeabili. Poiché sebbene l'azione si svolga a Gotham, la metropoli fumettistica per antonomasia, qui siamo lontani anni luce dai rassicuranti stilemi del cinema supereroistico alla Iron Man, Vendcatori e simili. 

Diciamo anche che è un film duro, crudo e a tratti disturbante o volutamente disturbante laddove pone in modo diretto interrogativi che inquietano. Possiamo veramente esimerci dalle responsabilità nei confronti di una società che sta andando in malora?

Due mosse vincenti: la prima è quella di usare un genere, e un'ambientazione di origine fumettistica quale quella del mondo di Batman per fare un film politico, di violenta critica sociale e di analisi psicologica, trascendendo quindi la matrice fumettistica per arrivare a qualcos'altro; la seconda è quella di usare volutamente un personaggio dropout che tutti quanti pretendiamo di conoscere e che ci aspettiamo da un momento all'altro che scivoli nell'abisso della follia omicida. Una maschera che mette a nudo i peccati di tutti. 

Non bisogna farsi però sviare dall'escamotage narrativo. Su internet le teorie si sprecano e basta fare una googlata per capire che anche successive dichiarazioni del regista (un Todd Philips che qui si allontana decisamente dal genere comico - commedia con il quale ha riscosso successo presso il grande pubblico), avvallerebbero i dubbi sull'identità del personaggio: si tratta del vero Joker, di una sua reinterpretazione o addirittura di un personaggio completamente diverso, magari un disadattato che vive nell'universo narrativo di Batman ma che nulla ha a che spartire con il Joker che conosciamo? E ancora con le teorie internettiane: si tratta di una narrazione di fatti realmente accaduti, all'interno della finzione scenica, o di una allucinazione perversa (ricordate il film omonimo  del 1990 di Adrian Lyne con Tim Robbins)?

Ma non sarebbe l'unica citazione. E' un film pieno di simboli e di citazioni che hanno un effetto subliminale: l'immondizia che sommerge una Gotham City alla vigilia di elezioni; la lunga scalinata che il protagonista percorre in un senso e nell'altro con un mood completamente diverso (guarda caso a spalle curve sotto il peso di una vita misera, in salita, e ballando verso la libertà da ogni vincolo, in discesa); il personaggio di De Niro che è passato dall'altra parte dai tempi di "Re per una Notte" e lo fa pesare sul povero Phoenix; i ricchi altoborghesi che a una serata di gala si godono con grasse risate la visione de il classico Tempi Moderni di Chaplin, simbolo per eccellenza dello sfruttamento dell'uomo da parte della macchina (leggasi: profitto industriale - capitalistico). E via a seguire.

Ottima messa in scena. L'ambientazione non è la Gotham notturna a cui siamo abituati da Tim Burton in poi, ma una diurna clonazione della Grande Mela, come a dire: se l'uomo pipistrello vive di notte, dove si opera un repulisti del marciume della società, di giorno che succede? Perché è di giorno che nasce e prospera quel male che ci sta molto più vicino di quanto ci possa sembrare.

Recitazione da urlo di Phoenix, sul quale regge l'intera operazione per la quale si costringe a perdere una ventina di kg per entrare in un personaggio sofferente, allampanato ai limiti della sopravvivenza, e fa l'inverso di De Niro, guarda caso, che in Toro scatenato era ingrassato per lo stesso motivo: una coincidenza o un'altra citazione?

Insomma un'opera cinematografica a tutto tondo, degna dell'aggettivo "artistica", e sicuramente necessaria in tempi come questi di sospensione del giudizio morale o di annebbiamento dei sensi, se preferite. In cui l'immoralità delle disparità sociali ha anestetizzato una società asfittica e sull'orlo dell'esplosione. 

Le Maschere di Joker come quelle di V per Vendetta. Solo che lì, era una coscienza civile che si ribellava alla morsa disumana della dittatura, qui è la furia animalesca e regressiva accesa dalla frustrazione e dalla fame.

E' una follia vendicativa e brutale. Ma è moralmente giusta? Bisognerebbe rispondere "no", con decisione, e condannare la violenza sempre implicitamente immorale.

Ma allora, così come Batman usa la violenza del vendicatore mascherato, che condanna i criminali senza processo, che si arroga ila diritto di ergersi a giudice, giuria e boia, in spregio delle normali regole civili, questo Joker opera specularmente e usa la violenza per appropriarsi di una giustizia che gli è stata sempre negata.

Ed è qui che emerge l'inquietante interrogativo: chi dei due in realtà opera nel giusto?

The end

giovedì 13 febbraio 2020

Insospettabili sospetti

E' un film del 2017 con un cast di veterani del mondo di cellulosa quali il trio Caine-Freeman-Arkin, coadiuvato da comprimari di tutto rispetto, come C. Lloyd (l'indimenticato Doc di Ritorno al Futuro) e un Matt Dillon (abbastanza intercambiabile con chiunque altro). 

La storia non è nuova. Anche perché il film è un remake di una pellicola del '73 che qui viene molto rimaneggiata. In pratica tre arzilli vecchietti con alle spalle anni di esperienza su come gira il mondo, si trovano chi per un motivo, chi per un altro, ad avere la necessità di molti soldi in tempi brevi. Quale viatico migliore per una agognata ricchezza se non quello dell'atto criminale più simbolico e politico che esista, cioè la classica rapina in banca? Ed infatti i tre impavidi, da tranquilli pensionati si improvviseranno scaltri rapinatori, con gli esiti che tutti possiamo immaginare. 

Questo film lo derubricherei sotto la categoria "sospensione di giudizio". Si tratta infatti di uno di quegli esempi di filmetti senza pretese che partono da premesse impossibili e si sviluppano in modo alttrettanto improbabile; insomma quelle americanate a cui solo gli americani credono e che noi possiamo vedere solo se ci avviciniamo ad essi senza riflettere (per quanto mi riguarda l'ho visto alle due di una notte insonne, sulla pay tv, sperando quasi di addormentarmi e senza riuscirci). 

Il film ha un ritmo brioso, ed è sostenuto, o almeno così si vorrebbe tutto dai battibecchi e dalle battute taglienti dei protagonisti. Ma anche qui si poteva fare di più, calcando un po' di più la mano. Alcuni comprimari sono azzeccati, altri sono macchiette (vedi il direttore di banca) sicché la commedia scivola facilmente in farsa. 

Vi è lieve accenno social - politico quando si vogliono criticare le banche e il sistema pensionistico americano, ma è tutto molto rassicurante e inoffensivo; l'inopinata povertà del trio è dovuta alla cessione della ditta per la quale hanno lavorato per decenni, con tanti saluti al Fondo pensione. 
Si tratta di un espediente narrativo che dà l'avvio alla vicenda e nulla di più. tanto che secondo me a stessa idea Ken Loach l'avrebbe sviluppata in ben altro modo.  Ma questi sono gli States...

Insomma, io gli darei anche un 6, a patto che lo si veda solamente se non si ha voglia di fare nulla di diverso, piove e si abbia qualcosa di buono da mangiare stravaccati sul divano. 

Nient'altro.

sabato 8 febbraio 2020

Il nuovo Dylan Dog: sono perplesso.

Ho comprato il numero 401 appena uscito. 

L'intenzione era quella di leggerlo subito e tutto d'un fiato. Ma poi l'ho letto solo ieri.

L'ho tenuto lì sul comodino, in attesa per qualche giorno. Non era ansia, non era paura o per citare Gwendaline "tensione" ("Questa tensione è insopportabile. Speriamo che duri!" - una delle mie frasi preferite di Oscar Wilde). Avevo altre incombenze, altre letture da finire. 
Sto leggendo un ebook preso in prestito dalla biblioteca. E' "La scimmia nuda" di Desmond Morris. 
Questo servizio del sistema bibliotecario della mia provincia è comodissimo. Si possono scaricare max due ebook al mese per tredici giorni l'uno. Finito il tempo concesso alla lettura, il file scompare. Un po' come l'autodistruzione di Mission Impossibile.

Ma torniamo a "L'alba nera" il Dylan n. 401. 
Un avviso sulla copertina (non so come si chiama tecnicamente il messaggio gridato sulla copertina che ha toni sempre entusiastici...) recita: "Un nuovo inizio!"

E' vero. E' proprio così. 

E' un reboot in piena regola, se vogliamo. Ma in cui si cerca di mantenere una tradizione, un'ancora o un contatto con il passato attraverso le citazioni del primo albo dylaniato, L'alba dei morti viventi. 

Quasi la stessa storia, quasi le stesse scene, e questo l'ho apprezzato tanto, come se fosse un continuo gioco di citazioni e rimandi al passato; una reincarnazione del Dylan di un tempo. Una vita che è già stata vissuta. O un eterno rincorrere universi paralleli. Tanto per dire in questo universo Bloch non è ancora andato in pensione, ma ha finalmente fatto carriera diventando Soprintendente. 

Qualcosa del genere era già stato fatto in casa Marvel, se non sbaglio con l'uomo ragno in Back in Black (citazionissima degli ACDC). 

Ok, mi sta bene. 

Non mi stanno bene altre scelte. Niente Groucho, sostituito da un Gnaghi a cui non si deve cercare la battuta a tutti i costi (ormai era troppo difficile?)

Non mi stanno bene né Carpenter né Rania. Non mi piacciono e non mi sono sembrati granché come invenzione già nel corso precedente. Troppo piatti, troppo telefonati, troppo concessi ad un'idea di fumetto politically correct (ma l'avete mai ancora vista una poliziotta con il velo? ok, nessun problema, a me non frega nulla della religione, ma almeno siamo un po' realisti).

E poi proprio in questo numero ho trovato la loro presenza eccessiva. Non sembrano spalle, ma cooprotagonisti. E no, questo non lo posso accettare. 

Potrei andare avanti. Dylan sembra un finto anti-eroe. Sembra un violento, uno che usa la forza. Mi si può dire che la violenza c'è sempre stata in questa testata (pardon, per la cacofonia). Ma, rispondo, non è quello il punto. Un conto è la violenza, un conto l'orrore, un conto è il fatto che un personaggio che rifugge da questa ci si trovi dentro a tutti i costi e sia obbligato ad usarla. Qui no, qui Dylan sa cosa deve fare e non si pone domande. La violenza la sa usare e temo che quasi se ne compiaccia. 

No, chiamatemi pure passatista, o retrogrado o cos'altro ma sono perplesso. Sì, è vero, ho una naturale tendenza al misoneismo. Non amo le novità, sopratutto quelle radicali. Forse sarà una forma di insicurezza, non lo so. Quello che mi domando è: quando un personaggio della fantasia cessa di essere un prodotto unico e di proprietà di un singolo autore e diventa patrimonio di una cultura, cioè di una collettività? Pensereste mai che Amleto appartenga a Shakespeare e non sia più una maschera. Un feticcio che è patrimonio di tutti? 

No, certo. Ormai Amleto è quello. E' una figura immobile, consegnata non alla storia, va bene, ma alla cultura. E' una maschera. Ma è sempre quella e nessuno se ne lamenta. Non può essere cambiata. E non appartiene a chi ne pubblica le storie. E' come se la casa editrice che pubblica oggi Amleto decidesse di cambiargli i connotati. Non può essere.

E' proprio la scelta radicale del curatore della testata di voler a tutti i costi rinnovare un personaggio con la scusa che i tempi cambiano, che non mi convince.

Mi convince di più l'idea che a cambiare siano i bilanci delle case editrici. Quelli sì che impongono di cambiare.

Ma signori mi dispiace. Non funziona così. Volete cambiare Dylan Dog per i vostri interessi. Non per l'arte o la società. Così fate di peggio di quanto poteste fare: lo uccidete. Perché io credo che un personaggio inventato, a qualunque latitudine, da qualunque forma d'arte provenga, cinema, teatro, letteratura e via dicendo, diventi immortale solo se mantiene i caratteri che l'anno definito.

Hanno cambiato Dylan e così facendo hanno ucciso il nostro Dylan, quello con il quale siamo cresciuti. Ne hanno tirato fuori un altro, un fantoccio o fake, se siete amanti del gergo odierno. 

Non so se l'operazione darà dei frutti, ma se lo farà saranno solo economici non artistici. 

Mi dispiace. Ma è così.