Visualizzazioni totali

mercoledì 23 marzo 2011

the football factory

Anni fa lessi “Fedeli alla tribù” di John King, il libro da cui è stato tratto questo film. Allora mi colpì soprattutto il linguaggio crudo, esplicito e violento con cui era scritto il romanzo. Il racconto era la narrazione, fatta in prima persona, delle vicende di un hooligan inglese che si barcamenava tra una scazzottata e l’altra fino all’epilogo della storia, che ora sinceramente non ricordo nemmeno.

La scelta di un registro linguistico così truce era stata fatta probabilmente per dare un tocco di estremo realismo al racconto ed in effetti se si voleva trasmettere il punto di vista del protagonista, narratore e attore delle vicende raccontate, necessariamente si doveva adottare qualcosa di simile.

Il romanzo aveva un suo perché. Non ricordo una particolare disamina delle problematiche sociologiche della realtà inglese degli anni novanta, epoca in cui era ambientato, né un approfondimento psicologico della natura umana, ma comunque rappresentava uno spaccato del particolare tipo di vita degli ultras britannici. Pertanto il romanzo poteva avere un suo valore.

Il film no. O meglio non questo film che è tratto dal romanzo ma non ne replica efficacemente il senso. Evitando equivoci, dico subito che il film si lascia guardare, nel senso che in fondo ci arrivate pure; solamente non è un’opera che si può iscrivere nella tradizione dei film che rappresentano la violenza o simili. Non è un film che ricorderete (non è arancia meccanica per intenderci né i guerrieri della notte). Alla fine dei conti questo film non rimane.

Il protagonista è l’io narrante. È un ragazzo del proletariato inglese, di una famiglia di sani principi testimoniati dal nonno ex combattente nella seconda guerra mondiale e sempre prodigo di buoni consigli. Ha un lavoro normale che non è particolamente gratificante e un unico passatempo: far parte del gruppo hooligan del Chelsea e passare le domeniche a menarsi con i tifosi avversari.

È tutto qui.

Nel corso del film viene esplicitata una domanda che il protagonista rivolge a se stesso: Ne valeva la pena? Cioè, ne vale la pena passare le domeniche a rischiare di farmi ammazzare per un niente? La risposta è nella scena finale. Ma poi il film non dice altro. I personaggi sono ben caratterizzati ma inutili. Il nonno eroe di guerra dovrebbe rappresentare l’alternativa della vita normale, ma è un sottotesto poco sviluppato e in cui gli sceneggiatori non sembrano crederci tanto. Non si spiega effettivamente perché il protagonista dovrebbe menare il prossimo e rischiare così, né si racconta efficacemente la storia dei comprimari di cui si dice solamente che provendo dalle zone disagiate della città hanno dovuto ricorrere alla violenza per sopravvivere. Poi basta. Lo studio sociologico finisce qui. E va bene che non ne bisogna fare un dramma e sinceramente film come i guerrieri della notte anche senza particolari attenzioni ai perché e ai percome delle disgrazie della nostra società funzionano benissimo. Solamente che questo è un film vuoto da cui non se ne ricava nulla, se non forse un po’ di spasso (alquanto modesto tuttavia).

Insomma è un filmetto per passare la serata in mancanza di altro destinato unicamente ai veri appassoinati di film sul calcio (e sulla violenza, anche se di calcio praticamente non se vede niente.

domenica 20 marzo 2011

Il maledetto united - libro di David Pearce

Questo è uno di quei casi in cui la lettura del libro, dopo aver visto il film da cui è tratto, non tradisce le aspettative e non rovina il piacere della lettura. Ho voluto leggere questo romanzo che altrimenti non avrei conoscoiuto, proprio dopo aver visto il film e mi è piaciuto.

Il romanzo, come spesso accade, ha un taglio diverso dal film e consente all’autore di approfondire i personaggi di dargli paradossalmente più spessore di quanto non possa fare la messa in scena su pellicola. È questo il caso del Maledetto United e della storia di Brian Clough, l’allenatore inglese che negli anni ’70 dopo un esaltante periodo con il Derby County, con cui vinse il campionato inglese e sfiorò la finale di Coppa dei Campioni, passò ad allenare il Leeds United e fallì miseramente.

Due sono le differenze sostanziali tra libro e film

Nel film si pone l’accento sul rapporto tra Clough e Peter Taylor, l’inseparabile allenatore in seconda e amico del protagonista. Tale rapporto che diviene via via sempre più conflittuale ha poco spazio nel romanzo. Se è vero infatti che anche nel racconto su carta si seguono le vicende dei due personaggi, è unicamente Clough a fare da padrone e il protagonista indiscusso è lui.

Il secondo elemento è nel taglio che si dà alla storia. Il film è incentrato sulle differenze tra passato, il Derby e il presente, il Leeds, cosa che è evidente anche nel testo scritto. Nel libro però la narrazione è incentrata sulla paranoia e sul senso di accerchiamento provato da Clough durante la sua esperienza al Leeds. Il racconto è una costante narrazione della paura del fallimento e degli incubi che atterriscono il protagonista rendendolo schiavo della sua voglia di supremazia su tutto e tutti. E soprattutto su Don Revie, la sua odiata nemesi.

E forse è proprio qui la chiave di lettura del romanzo. Il fallimento come allenatore del Leeds era annunciato dalle ombre minacciose che attanagliavano l’allenatore ben prima che egli assumesse il nuovo incarico. Quelle malefiche ombre che ne oscuravano la serenità necessaria ad affrontare il difficile compito che si era assunto.

Concludendo: il romanzo è scorrevole e si legge in poco tempo. È consigliato a chi ha già visto il film ma anche a chi non lo ha fatto. Si parla di calcio ma non è necessario esserne appassionati per gustarsi il piacere di questa lettura. C’è inoltre la chicca della batosta presa dal Derby con la Juve e i conseguenti insulti contro i bianconeri che fanno abbastanza sorridere (ovviamente non ridere…).

giovedì 17 marzo 2011

The Expendables di S. Stallone

Se avessero girato questo film negli anni ’80, probabilmente nei cinema di tutto il mondo si sarebbero verificate scene di isteria di massa. La gente si sarebbe strappata le vesti di dosso, le persone sarebbero poi salite nude sulle poltroncine dei cinema e avrebbero dato inizio a danze estatiche e ad orge propiziatorie per celebrare l’evento.

Evidentemente così non è stato. Il film è stato girato nel nuovo secolo e il problema di fondo è proprio questo. L’idea che ha mosso i produttori alla realizzazione di tale opera è stata quella di riunire dei big del cinema d’azione dela passato remoto (Stallone, Swarzy, ecc. senza però il buon vecchio Seagal che pare non abbia accettato) del passato prossimo (Bruce Willis) e del presente (Statham e Jet Li), scrivere una storia abbastanza inutile e scema e vedere l’effetto che fa (sul botteghino, si capisce).

Qual è il risultato? Mediocre. Alcune scene di azione sono carucce, altre solo incasinate. I dialoghi sono poco ispirati, ed intendo dire che avrei condito il tutto con una dose molto maggiore di ironia di quanta ne sia stata sparsa nel copione. La presenza di certi attori è inutile. Alcuni sembrano recitare così male che viene da pensare che in passato usassero le controfigure anche nei dialoghi. Inoltre mi dispiace per Stallone ma ha attualmente due problemi: il primo è che sembra così gonfio che pare sul punto di esplodere, e non è la muscolatura ma proprio la massa corporea (e le sopracciglia gliele hanno pure truccate male). Il secondo è che probabilmente deve ripassare qualche manuale di regia e di sceneggiatura. L’incontro tra il medesimo, Bruce Willis, e Swarzy, che avrebbe potuto essere finalmente il coronamento dei sogni proibiti di tutti gli ex ragazzi degli anni ’80, non ha niente di entusiasmante. Avrei voluto che l’evento fosse un po’ più “pompato”, invece appare abbastanza misero.

Non mi aspettavo di certo un film da Oscar ma almeno un prodotto vagamente guardabile sì.

Mi sento anche in colpa con me stesso perché ho violato uno dei comandamenti della mia personale religione:

una volta iniziato un film bisogna vederlo fino in fondo.

The End

BUON COMPLEANNO ITALIA!!!

AUGURI PER I TUOI 150 ANNI!!!!


L'Italia è il sogno che si realizza dopo secoli di dominio straniero....


lunedì 14 marzo 2011

2001 Odissea nello Spazio di Arthur C. Clarke

Sebbene sia un appassionato dei film di Stanley Kubrick, ne ho visti molti, mi sono sempre rifiutato di vedere Odissea nello Spazio. Il motivo è semplice: ho sempre avuto l’impressione che fosse un film “lento”. Anche Barry Lyndon è un film “lento”, nel senso che la narrazione procede molto lentamente e Kubrick gira molte sequenze dilatando enormemente il tempo di svolgimento dell’azione. Ma si rimane incollati allo schermo (almeno io rimango incollato), perché si vuole vedere come va a finire l’epopea del protagonista. Ho invece avuto sempre pregiudizi nei confronti di Odissea, perché la sua “lentezza” mi è apparsa sempre eccessiva quasi pedante. Ovviamente non avendolo visto non me la sento di sbilanciarmi e magari, e lo spero, posso essere facilmente smentito dalla visione del film.

Ho trovato sulla mia libreria questo volume di Longanesi, collana SuperPocket, che riunisce tutta la saga dei quattro volumi, per un totale di 739 pagine.

Lo dico subito. Ho letto solo il primo volume. Spulciando su Wikipedia si scopre che Kubrick avesse girato il suo film ispirandosi ad un racconto di Clarke, il quale una volta vista la sceneggiatura del regista ha ripreso in mano la sua idea e ha scritto il libro intitolato “2001 Odissea nello spazio” da cui ha poi sviluppato il seguito. È significativo che nella mia edizione dell’opera campeggino in prima pagina i nomi di entrambi come a voler dire che in realtà l’opera scritta è frutto del lavoro congiunto dello scrittore e del regista.

Leggendo il romanzo appare abbastanza chiaro che Clarke volesse sviluppare una narrazione in più volumi, Infatti tutta la sequenza finale, lunga e poetica prelude a qualcos’altro. Proprio tale parte è quella che secondo me si allontana dai canoni tradizionali della fantascienza e sfocia in una visione prettamente filosofico – metafisica dell’esistenza umana.

Sono solito bazzicare altra fantascieza e i miei autori prediletti sono Philip k. Dick, Isaac Asimov, William Gibson e Kurt Vonnegut e perché no il nostro Evangelisti. Clarke non rappresenta il genere di fantascienza che amo. Eppure devo dire che questa lettura mi ha ispirato delle riflessioni su quanto vasto, immenso e incommesurabile sia il nostro Universo e quanto gretti, modesti e limitati siano i comportamenti umani in confornto ad esso.

Forse la lezione che possiamo trarre è questa: l’universo fa paura; Lo spazio è pericoloso; Ma il genere umano deve progredire e allontanarsi dalla Terra e ricercare il senso del proprio essere al di là delle stelle.

Auguri a tutti…

sabato 12 marzo 2011

Il gioco della mosca - Andrea Camilleri

Non sono un fan di Camilleri. Alcuni anni fa ho letto “La mossa del cavallo” e devo dire che mi era piaciuto, tuttavia non mi sono mai appassionato alle vicende del Commissario Montalbano, né a quelle su carta, né a quelle televisive.

Ho trovato questo libretto nella mia inesauribile ed ecumenica biblioteca e mi hanno attratto due cose: la brevità (90 pagine nell’ovvia edizione Sellerio) e la necessità di leggere qualcosa di fresco dopo la “pesantezza” di Odissea nello spazio.

Questo libretto non contiene né un romanzo né un racconto, piuttosto una serie di micro – racconti, o micro – ricordi sceneggiati e commentati, che sono il frutto di un nostalgico esame della memoria dell’autore.

Camilleri si abbandona ai ricordi della propria infanzia e recupera vicende sopite nella sua memoria ma con un avvertimento per il lettore preso in prestito dal filosofo Franz Brentano: “La memoria aduna fantasmi e più su di essi si sofferma, più li rende immaginarii.

Da ogni micro ricordo contenuto in questa raccolta sembra emergere la possibilità di una storia, cioè ognuno di essi sembra offrire lo spunto per un qualcosa che possa tramutarsi in vicensa reale. Mi è sembrato pertanto possibile leggere tra le righe anche un altro avvertimento: la realtà supera la fantasia. Vogliamo cercare storie assurde o mirabolanti, cerchiamole nella realtà di tutti i giorni.

D’altra parte Camilleri narra di aver conosciuto durante la propria infanzia il grande Pirandello, e che questi fosse addirittura amico di famiglia. Era proprio il grande scrittore insignito del premio Nobel a narrare improbabili accadimenti. Prendete il “Fu Mattia Pascal”. Lo lessi anni fa in una vecchia edizione in cui era presente un’appendice curata dallo stesso autore. Pirandello raccontava da dove aveva preso lo spunto per il suo romanzo e rispondendo alla critica che lo tacciava di poca aderenza alla realtà riportando un articolo di cronaca nera in cui erano descritte pari pari le vicende accadute a Mattia Pascal.

Per inciso non riesco ad immaginare un’accusa più assurda e soprattutto più provinciale da rivolgere ad un romanziere. Non è cronaca è letteratura. Non è che l’intera arte della narrazione si risolva nel verismo; semmai è il verismo che rappresenta una variazione alla normalità letteraria.

Più di un racconto è ispirato a Pirandello, anzi a volte ne rappresenta un vero e proprio omaggio frutto del sincero orgoglio sentito da Camilleri per averlo avuto così “vicino” durante l’infnazia. Non si può fargliene una colpa. Se fosse di casa nella mia famiglia un premio Nobel, andrei a sbandierarlo ai quattro venti.

Il libretto è carino, scorrevole e lo si legge in poco tempo. Non si può accampare la scusa che Camilleri scrive in “siciliano” perché qui non è così. Ogni parola dialettale è opportunamente tradotta e commentata ampiamente perché proprio da ciascuna di esse nasce il mini evento che viene descritto.

Su tutte ho preferito “A buttana di Sciacca” ma ve ne sono altri veramente gustosi.

Lo confermo: è veramente una lettura piacevole.

martedì 8 marzo 2011

ogni maledetta domenica

Ogni maledetta domenica si vince o si perde. Resta da vedere se si vince o si perde da uomini.

Non c’è che dire, gli americani sono impareggiabili nel mitizzare i loro sport e a rendere epici eventi o atti che altrimenti non lo sarebbero.

Ho sempre considerato Oliver Stone un regista manicheo; da un lato il bene dall’altro il male senza distinzioni. Basta provare a guardare altri suoi film come nato il 4 luglio o Wall Street per capire come Stone cerchi sempre di distinguere la purezzza dal marciume e riservi a quest’ultimo la condanna finale e definitiva.

Il film si lascia guardare davvero. Le scene di football sono ben girate. Gli attori sembrano essere nella parte e la sceneggiatura funziona. Eppure credo che una pecca di questo film sia proprio nella regia. Un aspetto che non sopporto di certi registi è l’uso del ralenti. Non lo digerisco proprio. E anche le riprese così mosse, o l’alternare i piani. Ma vabbè.

Comunque è un film da vedere.