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sabato 8 febbraio 2020

Il nuovo Dylan Dog: sono perplesso.

Ho comprato il numero 401 appena uscito. 

L'intenzione era quella di leggerlo subito e tutto d'un fiato. Ma poi l'ho letto solo ieri.

L'ho tenuto lì sul comodino, in attesa per qualche giorno. Non era ansia, non era paura o per citare Gwendaline "tensione" ("Questa tensione è insopportabile. Speriamo che duri!" - una delle mie frasi preferite di Oscar Wilde). Avevo altre incombenze, altre letture da finire. 
Sto leggendo un ebook preso in prestito dalla biblioteca. E' "La scimmia nuda" di Desmond Morris. 
Questo servizio del sistema bibliotecario della mia provincia è comodissimo. Si possono scaricare max due ebook al mese per tredici giorni l'uno. Finito il tempo concesso alla lettura, il file scompare. Un po' come l'autodistruzione di Mission Impossibile.

Ma torniamo a "L'alba nera" il Dylan n. 401. 
Un avviso sulla copertina (non so come si chiama tecnicamente il messaggio gridato sulla copertina che ha toni sempre entusiastici...) recita: "Un nuovo inizio!"

E' vero. E' proprio così. 

E' un reboot in piena regola, se vogliamo. Ma in cui si cerca di mantenere una tradizione, un'ancora o un contatto con il passato attraverso le citazioni del primo albo dylaniato, L'alba dei morti viventi. 

Quasi la stessa storia, quasi le stesse scene, e questo l'ho apprezzato tanto, come se fosse un continuo gioco di citazioni e rimandi al passato; una reincarnazione del Dylan di un tempo. Una vita che è già stata vissuta. O un eterno rincorrere universi paralleli. Tanto per dire in questo universo Bloch non è ancora andato in pensione, ma ha finalmente fatto carriera diventando Soprintendente. 

Qualcosa del genere era già stato fatto in casa Marvel, se non sbaglio con l'uomo ragno in Back in Black (citazionissima degli ACDC). 

Ok, mi sta bene. 

Non mi stanno bene altre scelte. Niente Groucho, sostituito da un Gnaghi a cui non si deve cercare la battuta a tutti i costi (ormai era troppo difficile?)

Non mi stanno bene né Carpenter né Rania. Non mi piacciono e non mi sono sembrati granché come invenzione già nel corso precedente. Troppo piatti, troppo telefonati, troppo concessi ad un'idea di fumetto politically correct (ma l'avete mai ancora vista una poliziotta con il velo? ok, nessun problema, a me non frega nulla della religione, ma almeno siamo un po' realisti).

E poi proprio in questo numero ho trovato la loro presenza eccessiva. Non sembrano spalle, ma cooprotagonisti. E no, questo non lo posso accettare. 

Potrei andare avanti. Dylan sembra un finto anti-eroe. Sembra un violento, uno che usa la forza. Mi si può dire che la violenza c'è sempre stata in questa testata (pardon, per la cacofonia). Ma, rispondo, non è quello il punto. Un conto è la violenza, un conto l'orrore, un conto è il fatto che un personaggio che rifugge da questa ci si trovi dentro a tutti i costi e sia obbligato ad usarla. Qui no, qui Dylan sa cosa deve fare e non si pone domande. La violenza la sa usare e temo che quasi se ne compiaccia. 

No, chiamatemi pure passatista, o retrogrado o cos'altro ma sono perplesso. Sì, è vero, ho una naturale tendenza al misoneismo. Non amo le novità, sopratutto quelle radicali. Forse sarà una forma di insicurezza, non lo so. Quello che mi domando è: quando un personaggio della fantasia cessa di essere un prodotto unico e di proprietà di un singolo autore e diventa patrimonio di una cultura, cioè di una collettività? Pensereste mai che Amleto appartenga a Shakespeare e non sia più una maschera. Un feticcio che è patrimonio di tutti? 

No, certo. Ormai Amleto è quello. E' una figura immobile, consegnata non alla storia, va bene, ma alla cultura. E' una maschera. Ma è sempre quella e nessuno se ne lamenta. Non può essere cambiata. E non appartiene a chi ne pubblica le storie. E' come se la casa editrice che pubblica oggi Amleto decidesse di cambiargli i connotati. Non può essere.

E' proprio la scelta radicale del curatore della testata di voler a tutti i costi rinnovare un personaggio con la scusa che i tempi cambiano, che non mi convince.

Mi convince di più l'idea che a cambiare siano i bilanci delle case editrici. Quelli sì che impongono di cambiare.

Ma signori mi dispiace. Non funziona così. Volete cambiare Dylan Dog per i vostri interessi. Non per l'arte o la società. Così fate di peggio di quanto poteste fare: lo uccidete. Perché io credo che un personaggio inventato, a qualunque latitudine, da qualunque forma d'arte provenga, cinema, teatro, letteratura e via dicendo, diventi immortale solo se mantiene i caratteri che l'anno definito.

Hanno cambiato Dylan e così facendo hanno ucciso il nostro Dylan, quello con il quale siamo cresciuti. Ne hanno tirato fuori un altro, un fantoccio o fake, se siete amanti del gergo odierno. 

Non so se l'operazione darà dei frutti, ma se lo farà saranno solo economici non artistici. 

Mi dispiace. Ma è così.




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