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martedì 4 febbraio 2020

Il tulipano nero

Per noi quarantenni cresciuti con i cartoni giapponesi, il Tulipano nero evoca solamente "La Stella della Senna", l'anime giapponese del 1975, andato in onda in Italia nel 1984 e introdotto da una musica scoppiettante cantata da una giovanissima Cristina D'Avena (...colpi di là, colpi di qua, cosa accadrà? cosa accadrà?...alzi la mano chi non ha cantato il motivetto, nessuno: perché un riflesso condizionato come per il cane di Pavlov) e scritta da Alessandra Valeri Manera, il cui valore musicale, e vi assicuro che sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali mentre lo sto scrivendo, un giorno la storia della musica italiana riconoscerà come inferiore soltanto a quello di Mogol. 

Ebbene, il romanzo di Alexandre Dumas non c'entra una cippa con l'anime giapponese.

La storia è diversa. I protagonisti pure, il luogo e il tempo dell'ambientazione. Insomma è tutta un'altra cosa. 

E' un romanzo del 1850 ma che si fa leggere anche nel 2020 perché Dumas aveva la capacità, o forse la necessità visto che doveva pubblicare sulle riviste, di mantenere viva l'attenzione del lettore, lasciando in sospeso il finale di ciascun capitolo. Era la tecnica dei romanzi di appendice, che pubblicati a puntate, dovevano chiudere l'episodio con un colpo di scena lasciato lì; il lettore doveva abboccare ed essere indotto a comprare il giornale anche il giorno dopo. 

E' un romanzo di avventura e di amore, forse un po' troppo idealizzato e melenso, ottocentesco appunto ma quelli erano i tempi e gli stomaci del 21° secolo se lo devono far digerire a forza se vogliono arrivare fino in fondo. 

A tal proposito, in tempi di MeToo, non vorrei offendere nessuno dicendo che forse questo aspetto è più apprezzabile da un pubblico femminile...absit injuria verbis, non sia mai...

Ma è anche un romanzo che narra di una bieca ingiustizia subita da un uomo pio e di come quest'uomo, Cornelius Van Baerle, il protagonista, la viva non con rassegnazione ma con titanica accettazione. 

Eppure qui e là traspare chiaramente che l'accettazione della pena sia un simulacro di qualcos'altro di più profondo e certamente non puro come potrebbe a prima vista apparire. 

Si tratta a mio avviso di un'ossessione. 

Il tulipano nero, cioè la ricerca spasmodica di un fiore perfetto e puro, inimitabile e superiore (e qui è anche una specie di McGuffin ante litteram, se vogliamo) è per Van Baerle la sola ragione di esistere tanto che le misere cose umane ne sono sacrificate, finanche si tratti della libertà o della vita stessa. 

La medesima ossessione che travolge il villain della storia, Boxtel, il quale è macerato dal presunto successo del rivale e cerca con ogni mezzo di distruggerlo e rubargli il segreto, ma che il destino salomonicamente annienterà. A differenza ovviamente di Van Baerle che invece ne guarirà attraverso l'amore per una donna che guarda caso si chiama Rosa, come un altro fiore, e che qui rappresenta l'assennatezza della Ragione. 

E' quindi solo la Ragione (Rosa) che salva il protagonista dalla follia e lo libera dalla prigione in cui è precipitato o in cui rischia di cadere se rimarrà attaccato alle proprie ossessioni-catene. 

Chissà, magari ci ho preso. Magari no e ci ho visto più di quello che c'era scritto. Non lo so, ma a me il Tulipano nero è piaciuto.

Da leggere. 

Adieu. 



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